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IMMIGRAZIONE: LA PROLETARIZZAZIONE IMPOSSIBILE

1. LE FORZE IN GIOCO

Sebbene l’emigrazione sia un fenomeno che si estende a tutto il pianeta coinvolgendo gruppi etnici e culturali di ogni genere: africani, orientali, latinoamericani, magrebini, arabi, indiani, slavi, ciascuno dei quali renderebbe necessario un discorso a parte, occorre tuttavia preliminarmente considerare il problema da un punto di vista unitario. Definire cioè un denominatore comune sotto il quale considerare tutta questa varietà di razze e culture. Si è infatti soliti considerare questi individui per la loro condizione umana attuale, che li presenta come sradicati privi di risorse, riferendosi a loro come “disperati” mentre un tale generico umanitarismo, pur moralmente necessario, impedisce la reale comprensione del fenomeno. Questo perché da un lato considera solo la loro condizione attuale, quella di emigrante, in genere percepita in termini convenzionali mentre dall'altro viene del tutto ignorata la loro realtà storica concreta, cioè la loro condizione nel luogo d’origine, prima della migrazione. Condizione che costituisce la loro effettiva verità, e per certo umanamente assai più ricca e pregnante di quella attuale. Ciò significa che non conosciamo affatto gli immigrati e, nel dibattito sull’argomento, non vi è quasi traccia della loro realtà originaria. Questo inoltre ci permette di ignorare tranquillamente quali sono le cause che inducono milioni di persone ad abbandonare la propria casa e le proprie relazioni sociali per affrontare un futuro denso di incognite. Non a caso questa visione superficiale accomuna chi si mobilita in difesa degli immigrati e chi vorrebbe non esistessero pur rifiutando energicamente di essere considerati xenofobi e ancor meno razzisti. Segno che nel considerare la questione dell’immigrazione vi è anche da parte di chi è animato dalle migliori intenzioni qualcosa di sbagliato, anzi un fraintendimento profondo originato dal contenuto altamente emotivo della questione.

Occorre quindi andare oltre l’apparenza ideologica nella quale si presenta il problema, quella del generico ed innocuo “dramma umano” e considerare il fenomeno dell’immigrazione e gli individui che vi sono coinvolti non per quel che si dice che essi siano nei paesi in cui giungono, e nemmeno per quello che essi dicono di loro stessi, cioè, parafrasando Marx, non per la coscienza che hanno di sé, ma considerare gli emigranti per le contraddizioni della loro vita materiale, quindi per quel che sono essenzialmente. In tal senso essi sono prima di ogni altra cosa dei proletari, almeno potenzialmente, e lo sono oggettivamente ma non ancora soggettivamente. Più precisamente si tratta in generale di contadini espulsi dalla campagna e costretti a proletarizzarsi, che però, essendo tale trasformazione nel loro paese d’origine al contempo obbligata e impossibile, devono trovarne altrove le condizioni. Quindi sono due volte emigranti, prima all’interno del paese d’origine dalla campagna alla città, poi all’estero dal Sud al Nord del mondo.

Infatti la proletarizzazione delle classi subalterne precapitalistiche è conseguenza inevitabile dello sviluppo capitalistico. Entrambi i processi, fra loro strettamente correlati, possibili in occidente dove danno luogo alla prima rivoluzione industriale, ora nei paesi in via di sviluppo (PVS), molti dei quali divenuti ormai paesi di nuova industrializzazione (PNI), dopo un faticoso avvio seguito alla decolonizzazione trovano ostacolo nelle condizioni attuali. Infatti ciò che caratterizza il mondo contemporaneo è il ritorno di quel mercato mondiale che esisteva prima della Grande Guerra e che era scomparso con l’avvento dell’URSS. Esso si ricostituisce dopo la fine del mondo bipolare e l’entrata dei paesi a capitalismo di stato nel capitalismo monopolistico privato, ricreando così un’unica area economica estesa a tutto il pianeta, aperta al libero movimento di merci e capitali, quindi anche della forza lavoro, evento conosciuto come globalizzazione.

Il grande progresso realizzato dal mondo bipolare era stato l’aver posto fine al colonialismo e avviato lo sviluppo economico del terzo mondo, mentre la novità della globalizzazione è il definitivo superamento della condizione di “sviluppo bloccato” imposto ai PVS dal colonialismo e dai successivi tentativi di dominio indiretto del neocolonialismo, ma anche l’aver posto in luce i limiti di tale superamento. In passato il ruolo imposto ai PVS nella divisione internazionale del lavoro era principalmente quello di produttori di materie prime per i paesi industrializzati che li avevano dominati prima politicamente e poi economicamente, imponendo loro rapporti commerciali e finanziari capestro. Con la fine del colonialismo i PVS poterono avviarsi sulla strada dello sviluppo istituendo economie pianificate e protezionistiche, prendendo a modello l’Unione Sovietica e sfruttando la rivalità tra questa e gli Stati Uniti che poneva i PVS al riparo dai due opposti imperialismi. Così fu loro possibile avviare l’accumulazione del capitale necessario allo sviluppo capitalistico secondo il processo classico, cioè come trasferimento forzato di risorse e manodopera dall’agricoltura all’industria. Ciò avviene trasformando l’agricoltura di sussistenza in agricoltura per l’esportazione, attraverso la concentrazione della proprietà, la trasformazione dei contadini semi-indipendenti in braccianti e l’espulsione dalle campagne della manodopera eccedente. Da ciò consegue lo sviluppo nel terzo mondo di mostruose conurbazioni, serbatoi di manodopera a basso costo, indispensabile per il processo di accumulazione.

Il mondo bipolare è quello della seconda rivoluzione industriale. La fine di tale mondo e la nascita della globalizzazione coincidono con la terza rivoluzione industriale o rivoluzione informatica (e dei trasporti: container per le merci, voli economici per le persone). Ciò fa sì che lo sviluppo dei PVS abbia luogo all’insegna della concorrenza a livello planetario tra tecnologia di alto livello e bassi salari. Infatti i PVS, non più limitati al ruolo di produttori di materie prime e mercati di sbocco per i paesi industrializzati, stanno sviluppando essi stessi, non più in forma protezionistica ma in regime concorrenziale sul mercato mondiale, una struttura industriale. Ma essa si trova a dover competere con le industrie tecnologicamente molto avanzate dei paesi più sviluppati, ciò che richiede forti investimenti in beni strumentali e formazione, di cui non possiedono i mezzi, per cui quello che possono offrire sul mercato internazionale è l’unica risorsa di cui dispongono in abbondanza: manodopera a basso costo. La situazione non è storicamente nuova: ogni nazione che ha tentato di accedere al capitalismo si è trovata la strada sbarrata dal livello di sviluppo raggiunto dai suoi predecessori ed antagonisti, e dalla tecnologia corrispondente. Così era stato per Francia, Germania, Italia o Giappone. Ma più un paese tarda ad entrare nell’area capitalista più difficile sarà il suo inserimento. Se nel Settecento in Inghilterra era sufficiente per un artigiano o un contadino un piccolo capitale e le sue conoscenze tecnologiche empiriche per avviare un’impresa capitalistica, ora le risorse minime necessarie sono molto più elevate sia quantitativamente che qualitativamente e difficili da realizzare. Di conseguenza l’industrializzazione dei PNI è stretta tra due necessità contrastanti. Da una parte, essendo il lavoro a basso costo l’unica risorsa abbondante, il processo produttivo deve essere ad alta intensità di lavoro, dall’altra, per la concorrenza internazionale, deve realizzarsi ad un livello tecnologico non troppo inferiore a quello dei paesi avanzati e pur ridotto al minimo, sarà abbastanza elevato da limitare il ricorso a manodopera generica, rendendo così necessari alti investimenti in macchinari e formazione. Per cui il processo di industrializzazione non può procedere secondo lo schema classico, cioè prima espropriazione dei contadini e soffocamento dell’artigianato, poi esodo dalle campagne e inurbamento dei contadini proletarizzati, con la conseguente formazione di un esercito di manodopera salariata disponibile per l’industria, quindi intenso ritmo di accumulazione che riproduce ed amplifica il processo a livelli sempre più elevati.

L’emigrazione di massa non è una esperienza storicamente nuova, poiché anche in passato, nell’Ottocento, ha favorito il deflusso di manodopera superflua dall’agricoltura. Ma allora si trattava di contadini analfabeti e aveva a disposizione le immense aree selvagge di interi continenti che costituivano vere colonie di popolamento, quali l’America e l’Australia. Ora si tratta di immigrazione in paesi già popolati e sviluppati, cioè dell’afflusso di manodopera eccedente verso i paesi industrializzati. Ma questi non sono in grado di assorbire tale offerta di lavoro, dato che l’alta qualificazione tecnica delle industrie non necessita di forza lavoro generica e la domanda di quella qualificata è limitata e soddisfatta da quella locale che è comunque avvantaggiata sul piano culturale. L’immigrazione può quindi solo essere assorbita in settori ancora ad alta intensità di lavoro (edilizia, agricoltura, piccole industrie marginali, manovalanza in nero) o nei servizi a bassa qualificazione (servizi alla persona, pulizie), ciò in un contesto locale già segnato da un livello di disoccupazione o sotto-occupazione che coinvolge anche i locali e quindi rende appetibili tali posti di lavoro, sebbene generalmente sottopagati o disponibili solo in nero, anche per il proletariato locale.

L’immigrazione interna all’Europa nell’ultimo dopoguerra costituisce una eccezione. Il caso della Germania, dove l’immigrazione (ma anche l’afflusso di profughi dall’est) hanno resa possibile la ricostruzione e il successivo miracolo economico, è un caso particolare: qui il problema principale non era il capitale, ma la riduzione della popolazione in seguito allea guerra. Quanto alla Francia e alla Gran Bretagna, l’immigrazione proveniva dai loro imperi coloniali ed era il risultato delle politiche tese a creare uno strato privilegiato di popolazione coloniale integrato con la metropoli.

Altra anomalia rispetto al passato è il grado di istruzione mediamente elevato degli emigranti, evidente specialmente per gli immigrati provenienti dai paesi ex-socialisti. Infatti nella anteriore fase dell’economia pianificata lo stato aveva proceduto ad un vasto intervento nel campo della formazione al fine di creare quel grado di acculturazione minimo necessario ad una economia moderna e addestrare i numerosi tecnici indispensabili. Con la fine di tale fase, conclusasi con la privatizzazione delle industrie di stato, tale forza lavoro si è trovata disoccupata e costretta ad emigrare.


2. LA DINAMICA DI CLASSE

Il proletariato si è trovato in ogni epoca a fronteggiare il problema dell’emigrazione, che è stato sempre risolto con l’integrazione. Infatti ciò che determina l’emigrazione è una costante della lotta di classe: la concorrenza universale in cui il capitale pone chiunque, capitalisti e salariati e l’emigrazione è nient’altro che la concorrenza tra proletari a livello internazionale. La novità è che il proletariato deve ora affrontare il problema non più solo su scala nazionale o continentale, ma su scala planetaria, cioè intercontinentale, e ad un livello quantitativo mai prima osservato.

Ma occorre affrontare il problema realisticamente, il che significa da una parte considerare la questione da un punto di vista di classe e poi distinguere con cura tra la dimensione contingente, cioè difensiva, e quella di lungo periodo, cioè relativa alla prospettiva storica, quindi del comunismo.
Una prospettiva di classe implica che venga respinto senza esitazione ogni approccio genericamente umanitario per considerare oggettivamente la fase storica presente. Solo da tale punto di vista può apparire evidente che ciò che connota in primo luogo gli immigrati è il fatto di essere proletari. Stabilito questo si può andare oltre e constatare che più precisamente si tratta di esponenti di ceti precapitalistici in dissoluzione, che si trovano nella condizione di potenziali proletari ma in una società capitalistica avanzata. Individui che perciò considerano la proletarizzazione come una promozione sociale rispetto alla condizione semifeudale, o anche barbarica, dalla quale provengono e vogliono emanciparsi, tanto più in quanto sono già stati avviati su questa strada dal precedente capitalismo di stato. In tale situazione storicamente contradditoria di uomini del passato che si trovano a confrontarsi senza mediazioni possibili con una società capitalista avanzata, devono soprattutto rapportarsi con la corrispondente struttura di classe, profondamente diversa da quella d’origine, cioè con una borghesia e un proletariato sviluppati, rapporto che perciò non può che essere problematico.

Per quanto concerne la borghesia occorre sottolineare con forza che essa ha tutto l’interesse a far affluire nelle aree sviluppate manodopera in esubero al fine di accrescere l’esercito di riserva, cioè dei disoccupati, inasprendo così la concorrenza tra i proletari. Simmetricamente ciò crea un antagonismo tra immigrati e salariati locali, che vedono gli immigrati come concorrenti, in un rapporto di rivalità solo parzialmente attenuato dalla diversità delle qualificazioni, quindi dei posti di lavoro cui possono aspirare. Fattore questo però limitato dal fatto che la domanda di lavoro qualificato è la sola di cui il capitale sviluppato ha veramente necessità, per cui la competizione ha luogo essenzialmente nei settori dequalificati, concorrenza esacerbata dalla disoccupazione tecnologica.

Coerentemente a questa evoluzione incipiente il proletariato degli immigrati e quello locale da una parte si trovano nella necessità di unirsi per far fronte comune contro la borghesia, la quale favorisce l’immigrazione ed insieme l’antagonismo, per cui i proletari locali sono costretti ad abbandonare l’inutile e reazionaria (e falsamente interclassista, rispetto alla borghesia) competizione economica nei confronti degli immigrati, che così possono abbandonare la corsa al ribasso dei salari. D’altra parte tale necessità determina successivamente il superamento degli attriti culturali, cioè sovrastrutturali, quindi della sfera della coscienza. Cioè gli immigrati sono indotti ad abbandonare idee e costumi ormai storicamente superati e che costituiscono altrettanti ostacoli alla loro integrazione nella nuova realtà in cui vivono, processo questo evidentissimo e rapido specialmente nelle nuove generazioni. Parallelamente il proletariato locale può superare pregiudizi provinciali e retrogradi e l’immigrazione diviene per esso un potente fattore di modernizzazione, che lo induce e internazionalizzarsi realmente, ampliando le proprie prospettive.


Ma questo sviluppo è stato possibile in passato, mentre ora diviene sempre più difficile. Infatti attualmente su tali aspetti positivi del processo prevalgono elementi che li negano. Innanzitutto vi è il fatto di carattere generale che tale movimento è ancora compatibile con il capitale e determina nel suo insieme un ulteriore sviluppo del capitale stesso e dei suoi limiti. Infatti il movimento migratorio (come anche altri movimenti caratteristici della globalizzazione, come la delocalizzazione delle industrie e del capitale finanziario, che costituisce anch’esso un movimento migratorio inverso a quello precedente, in quanto è la migrazione del capitale produttivo e monetario verso i luoghi dove la forza lavoro è disponibile) è gestito e regolamentato strettamente dal capitale, che ne modula i flussi secondo le sue necessità. Questo significa che il capitale governa il fenomeno in modo da finalizzarlo al profitto, quindi i flussi migratori sono altrettanta linfa vivificante per un capitale altrimenti in declino. Di qui l’alternanza di repressione ed esibizione di buoni sentimenti da parte di tutti i poteri nazionali ed internazionali nei confronti degli emigranti. Non bisogna mai dimenticare infatti che il vero “oro” del capitale non sono i beni materiali ma il lavoro, poiché senza il suo potere vivificante i primi sono solo mezzi di consumo improduttivo. Questo fatto rivela che il capitale supera certamente il particolarismo considerando gli individui come umanità generica, ma lo fa ponendoli come cittadini, cioè solo formalmente come individui e come uguali. Quindi, da una parte livellando gli individui come oggetti, dall’altra creando una nuova differenza di classe in realtà li considera solo come fonte di ricchezza espropriabile, come lavoro ridotto a merce, cioè appunto come proletari,

Per questo motivo non solo il capitale non è, e non è mai stato, la soluzione del problema dei movimenti migratori, ma si rivela sempre più incapace di portare a compimento tale soluzione. In termini generali il problema dovrebbe inceve essere considerato in quanto superamento delle particolarità, cioè della definizione concreta dell’uomo come universalità di cui l’immigrazione è un aspetto fenomenico. Questo perché pone la questione in termini concreti, cioè come libertà di movimento dell’individuo. Questa è allo stesso tempo sia esigenza universalistica in quanto realizzazione umana, sia una necessità concreta per un razionalizzazione dell’economia. Il capitalismo fallisce in ciò perché tale libertà presuppone che ognuno possa trovare ovunque le condizioni adeguate alla propria esistenza, cioè alla produzione e realizzazione della propria vita, dato che chiunque è in grado di sostentare se stesso se è messo nelle condizioni di poterlo fare, cioè se per lui è possibile lavorare. Inoltre, al contempo, producendo se stesso produce indirettamente ogni altro individuo, in quanto la divisione del lavoro moltiplica la produttività del lavoro individuale trasformandolo in lavoro sociale, cioè lavoro moltiplicato. Se questo è possibile solo mettendo a disposizione di tutti le risorse esistenti, cioè i mezzi di produzione, questo è impossibile nel capitalismo, dove i mezzi di produzione sono monopolio di pochi individui, che li accrescono solo per accrescere la loro proprietà e il potere che ne consegue. Per cui lo sviluppo di tali mezzi, come è evidente nello sviluppo delle tecnologie e quindi della produttività del lavoro, non accresce le possibilità di lavoro ma al contrario le restringe, creando disoccupazione per molti, superlavoro per pochi ed una enorme espansione della proprietà e del potere per pochissimi. Le vittime designate di un simile perverso sviluppo sono i lavoratori generici, e tra essi i più deboli, gli immigrati.

Così anche il capitale diviene vittima dei propri limiti. In questo senso il capitale stesso, giunto alla sua massima estensione, quella planetaria, non potendo più permettere agli esclusi di proletarizzarsi in modo adeguato non può più espandersi. Infatti nei paesi d’origine degli immigrati non può assorbire le masse contadine espulse dalle campagne. Nei paesi sviluppati non può più assorbire l’afflusso degli immigrati al livello del proletariato locale. Ciò che era stato possibile in passato non lo è più oggi. Quindi sempre più il capitale si mostra in grado di dissolvere i vecchi ceti precapitalistici, ma fallisce nel trasformarli in proletariato, una prima volta nel paese d’origine, una seconda nei paesi di emigrazione. Viene così creata in entrambi gli ambienti, nei PVS come nei paesi sviluppati, una discriminazione di fatto, ma anche calcolata, di tali masse di declassati, ghettizzazione. Questa situazione determina una loro integrazione al livello angusto di un nuovo sottoproletariato, sospeso tra la sotto-occupazione e la microcriminalità. Cioè il capitale non riesce più a valorizzare il lavoro. Quindi la società capitalista può solo decadere, divenire ciò che si sta delineando sotto i nostri occhi, una mistura di barbarie e progresso, cioè una società barbarica tecnologicamente avanzata. Gli Stati Uniti sono già avanti su questa strada e prefigurano quale è la società del capitalismo maturo. Una società di decadenza economica ad alta tecnologia, con una struttura multietnica e formalmente democratica ma segnata da una guerra endemica tra etnie contrapposte e dalla repressione poliziesca e carceraria. Il problema dei flussi migratori e il suo carattere apparente di problema insolubile è solo una delle campane che annunciano la fine di un’epoca.