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IL RAPPORTO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO

CARATTERE DUALE DEL RAPPORTO

Nel modo di produzione capitalistico il rapporto di produzione si presenta in due forme: una volta nella sfera della circolazione come scambio tra capitale e lavoro, una seconda volta in quella della produzione come dominio del capitale sul lavoro. (1) Questa forma duplice è tanto più singolare in quanto si tratta di rapporti tra loro antitetici. Il primo, che ha come presupposti sociali la proprietà privata e la libertà dei soggetti, implica la divisione sociale del lavoro, ed è ereditato da formazioni sociali precedenti. Il secondo è fondato sulla volontà dispotica del capitalista, il quale domina completamente il processo produttivo conferendogli una forma caratteristica, creazione specificamente capitalistica, quella della divisione manifatturiera del lavoro. Rapporto questo che si pone come negazione del precedente sia in relazione alla libertà del lavoratore, in quanto esso è sottoposto al dominio del capitale, sia in relazione al lavoratore come proprietario, in quanto esso viene spogliato totalmente del prodotto del proprio lavoro. Quindi assenza di libertà nel processo di lavoro ed espropriazione del risultato: questo l’esito della transizione dal primo rapporto al secondo. Nel passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione si verifica cioè una negazione radicale del primo rapporto da parte del secondo.

Perché questa duplicazione di quello che in realtà è uno stesso rapporto, cioè un rapporto di produzione, e perché in due forme che sono una la negazione dell’altra ? Marx accenna alla motivazione principale di questa singolare scissione quando paragona il rapporto di produzione capitalistico a quello feudale, (2) osservando che in quest’ultimo il pluslavoro appariva nella sua realtà senza mistificazioni. Infatti esso si manifestava in forma tangibile in quanto il servo doveva lavorare la terra signorile per un numero determinato di giornate l’anno e conferire al signore determinate quantità di prodotti. Invece nel modo di produzione capitalistico il pluslavoro sembra scomparire e ciò in quanto il rapporto di produzione è mediato dallo scambio, cioè dal denaro. Così come sembra svanire il dispotismo del capitale sul lavoratore in quanto i soggetti dello scambio si presentano entrambi come individui liberi ed uguali: liberi contraenti di un contratto, il contratto di lavoro (locazione d’opera), ed ugualmente proprietari, uno della forza lavoro, l’altro dei mezzi di produzione. Infatti, che il rapporto di scambio presupponga che il compratore, cioè il consumatore, prima di porsi come tale debba apparire come venditore, è una circostanza che non viene percepita dal salariato, il cui ruolo appare ai suoi stessi occhi non quale è nella realtà, cioè quello di venditore di se stesso in quanto capacità di lavoro, ma quello illusorio di libero contraente di un contratto di lavoro. Si parla non di vendita ma di collaborazione, non di salario ma di reprtibuzione. D’altra parte la merce trasferita, la forza lavoro, non appare in quanto si tratta di merce immateriale. Si parla di vendita solo genericamente, come mercato del lavoro, o in casi particolari, per prestazioni illecite o immorali, come per la corruzione di un funzionario o per la prostituzione. Il che la dice lunga sulla realtà che si vuole occultare. Ma il duplice ruolo di compratore e venditore compete anche al capitalista. Se esso compare come acquirente dei fattori della produzione, deve prima essersi posto come venditore. Ma di ciò si parla poco perché il suo denaro proviene dalla vendita di beni che non sono stati prodotti dal suo lavoro. Ciò significa, come dice Smith, che ha l’abitudine di “mietere dove non ha seminato”. Tutte queste pratiche, le quali costituiscono altrettante violazioni del principio borghese di proprietà, nella percezione degli individui rimangono a livello subliminale, ciò che permette alla classe dominante di proclamare abusivamente i principi borghesi di libertà formale ed uguaglianza giuridica nella circolazione, per negarli nella produzione.

Ma, come risultato del rapporto di scambio, il rapporto di produzione capitalistico presenta per il capitalista altri notevoli vantaggi. Dopo ogni ciclo produttivo le condizioni del rapporto sono ricostituite. Infatti il capitalista si trova riconfermato come proprietario e il lavoratore come non-proprietario, come indigenza assoluta. Ma non solo. Il capitalista, che ha accresciuto il suo capitale, si ritrova in condizioni economicamente migliori rispetto a quelle iniziali, quindi peggiori per il lavoratore. Di conseguenza il ciclo può ripetersi indefinitamente e il capitale crescere esponenzialmente, in quanto non vi sono limiti all’accumulazione, perché ciò che viene accumulato è valore, non beni in natura.(3) Pertanto il lavoro, benché giuridicamente libero, viene tenuto permanentemente e in misura crescente nel suo stato originario di dipendenza dal capitale. In realtà è questa dipendenza economica ciò che determina il vero rapporto di produzione, che è un rapporto di comando del capitalista sul lavoro, in cui il capitalista prescrive e controlla – formalmente con il consenso del lavoratore – la prestazione lavorativa dei singoli e complessivamente l’intero processo di lavoro, finalizzandoli alla creazione di plusvalore e alla sua appropriazione da parte del capitalista. Ma tale consenso è formale poiché non deriva tanto dal risultato dello scambio, cioè dal valore d’uso del salario, ma dalle condizioni che determinano a priori lo scambio della forza lavoro contro il salario, cioè dall’indigenza, in quanto produttore, del possessore della forza lavoro, che è quanto determina inesorabilmente la sua trasformazione in merce. Si tratta di un consenso estorto, ciò che non appare nello scambio, cioè nella circolazione dove ciascuno si presenta come libero scambista, ma solo nella produzione. Quindi la funzione svolta dallo scambio è di far apparire un rapporto di produzione dispotico non come tale ma come la naturale conseguenza di un contratto liberamente sottoscritto. Si tratta quindi di una mistificazione ideologica.

Dunque, lo scambio non può costituire il fondamento del modo di produzione capitalistico, per quanto la domanda, cioè il consumismo, possa assumere un ruolo importante in questa fase dello sviluppo capitalistico. Il fondamento effettivo, cioè quello caratteristico e storico, del capitale va ricercato nel luogo della produzione e qui colto nei suoi caratteri essenziali. Si può così constatare che nella produzione il capitale assume un carattere duplice e contraddittorio, cioè da una parte dispotico, in quanto comando sul lavoro, dall’altra socializzante, in quanto centro organizzativo della cooperazione. Al contempo si può osservare nella forza lavoro un corrispondente carattere contraddittorio, cioè da una parte appare come insieme disperso di produttori individuali isolati, vera realizzazione dell’individualismo borghese, che si coordinano solo mediante il capitalista, dall’altra come corpo organico di produttori parziali. Sotto il primo aspetto, e in corrispondenza del rapporto di produzione dispotico, i produttori si presentano semplicemente come elementi dispersi di una classe sottoposta al dominio di una volontà estranea che li sottomette al proprio comando, volontà la cui finalità non solo non è la loro, ma si contrappone a loro, in quanto dal processo di lavoro i produttori non ricavano altro che la produzione e riproduzione della loro condizione complessiva, quella biologica, cioè la sopravvivenza, e quella sociale, cioè il rapporto di subordinazione. Nel secondo aspetto i produttori trovano nel capitale la mediazione, per quanto materialmente quindi spiritualmente alienante, che permette loro di costituire collettivamente una nuova entità, l’operaio sociale, che si contrappone all’operaio parziale isolato e pone le basi per il suo superamento.(4) Ma la socializzazione del lavoro va oltre questa forma passiva, imposta dall’esterno. I produttori nella forma dell’operaio sociale, cioè in quanto inseriti nel movimento del processo di produzione, superano praticamente la loro condizione di espropriati, impadronendosi dei mezzi di produzione e quindi del prodotto del lavoro, riaffermando nei fatti il loro diritto, in quanto produttori, all’intero risultato del lavoro, come diritto originario indisponibile.(5) Ciò in un movimento pratico collettivo in cui ogni singolo operaio parziale si coordina con ogni altro e con la totalità dei produttori organicamente coordinati, determinando così di fatto una partecipazione collettiva al processo lavorativo, partecipazione tanto indispensabile quanto irrealizzabile come adeguamento passivo al comando capitalistico. La partecipazione è una attività collettiva che il capitale ottiene dall’operaio sociale come prestazione gratuita, cioè dal corpo sociale costituito dal collettivo dei produttori coordinato e socializzato nella cooperazione in uno stesso processo di produzione.(6)

LA LEGGE DEL VALORE COME IDEOLOGIA

Dunque, lo scambio tra equivalenti è una apparenza che occulta la realtà quale si manifesta nel mondo della produzione, cioè l’appropriazione del plusvalore e il controllo sul processo produttivo. Lo scambio è il movimento del mondo delle merci ed esso sarebbe regolato dalla legge del valore, secondo la quale nello scambio si permutano quantità uguali di lavoro qualitativamente astratto e quantitativamente pari a quello socialmente necessario. Ma il mondo delle merci è il mondo dell’apparenza, quindi la legge del valore è essa stessa una apparenza, una ideologia. Infatti ciò che determina il valore di una merce non è il lavoro né alcun altro fatto oggettivo , quale l’utilità o la domanda e l’offerta, ma il rapporto sociale fra le classi, che in una società di classe è sempre antagonistico, in modo palese oppure mistificato. Infatti in virtù della legge del valore il mondo delle merci è dominato da quello che Marx chiama feticismo, cioè dal fatto che la relazione tra le merci appare come una relazione oggettiva, che sembra determinare il rapporto sociale fra i possessori delle merci come quello, fittizio, fra produttori indipendenti. Mentre è al contrario il reale rapporto sociale tra i possessori come divisione del lavoro che determina il presentarsi di beni concreti nella forma astratta di merci, cioè di valori. Ma ciò viene occultato ideologicamente. Il risultato complessivo di questa mistificazione è una relazione dei produttori con i prodotti del loro lavoro in cui questi dominano i loro creatori. Si verifica cioè una inversione tra soggetto ed oggetto. Sebbene questa inversione sia ideologica, quindi solo apparente, questa illusione possiede una forza reale. Perciò la realtà materiale si manifesta come la propria negazione. Tale realtà è una forma specifica di cooperazione, cioè la divisione sociale del lavoro, forma in cui il rapporto di produzione tra produttori indipendenti è mediato dallo scambio. Quindi la realtà sociale occultata dalla forma merce è il sussistere tra i produttori di un rapporto di cooperazione, che però si realizza in modo inconsapevole con la mediazione del mercato, “dietro le spalle” dei produttori che percepiscono se stessi come produttori individuali indipendenti. (7) Cioè la socializzazione del lavoro è cancellata e sostituita da una fittizia dipendenza dalla cose, vissuta come indipendenza individuale.

Il rapporto di produzione salariato è un caso particolare del rapporto di scambio. Qui le merci in questione sono la forza lavoro e i mezzi di produzione, cioè i mezzi di sussistenza e di lavoro. Nel rapporto di produzione capitalistico il feticismo delle merci assume forme particolari, in quanto al feticismo in generale si aggiunge quello particolare relativo ad una merce speciale, la forza lavoro. Lo scambio forza lavoro contro mezzi di produzione appare come un fatto oggettivo che sembra determinare il rapporto di produzione tra lavoro e capitale come libero rapporto contrattuale, nonostante il suo carattere dispotico. Mentre, al contrario, è il rapporto di produzione, così come è determinato dalla cooperazione in quanto forza produttiva, che fa sì che i fattori di produzione assumano la forma di merci. Anche qui l’apparente oggettività del carattere di merce dei prodotti del lavoro, che si presentano come valori, sembra determinare lo scambio come rapporto tra liberi proprietari, in questo caso tra lavoro e capitale, e non viene percepito il rapporto reale, quello di cooperazione, tra lavoro direttivo ed esecutivo e soprattutto quello tra gli esecutori stessi, che supera la prima dicotomia.

Quindi il rapporto salariato realizza una doppia mistificazione. Da una parte il rapporto di produzione viene definito in modo tale che la forma in cui si esplica nella realtà, cioè la cooperazione coercitiva e dispotica, appare come libero lavoro salariato. Cioè il rapporto di produzione costrittivo, quindi dispotico, appare come libero rapporto contrattuale. Quindi la duplicità del rapporto di produzione capitalistico è un caso particolare di feticismo delle merci, il modo in cui esso si manifesta nel capitalismo. Cioè, come in generale il feticismo delle merci, che equivale a porre lo scambio come vero rapporto di produzione, crea l’illusione del lavoro libero e indipendente occultando l’universale dipendenza dalla divisione sociale del lavoro, così sotto il capitale produce l’illusione del lavoro salariato come lavoro libero e cancella la realtà della sottomissione del lavoro alla divisione del lavoro capitalista, cioè la cooperazione manifatturiera, qui realizzata come rapporto di produzione fondato sulla proprietà. (8) In questo gioco di specchi la realtà viene capovolta. Quindi sembra che il libero rapporto di scambio determini il rapporto nella produzione come collaborazione volontaria, mentre è vero l’opposto, è la realtà del dispotismo che rende necessaria l’illusione del lavoro libero e indipendente. Cioè, tali caratteri del lavoro che si manifestano nella circolazione sono percepiti dal lavoratore anche nella produzione.

Ma vi è un altro carattere del lavoro, oltre quello di attività libera, che viene mistificato. Nella produzione il lavoratore opera nella convinzione di essere un individuo non solo indipendente ma isolato, che lavora unicamente per sé, per il proprio salario, mentre in realtà il suo lavoro è inserito in un complesso sistema apparentemente mercantile, in realtà cooperativo. Infatti il singolo lavoratore è parte di quella totalità organizzata che è l’operaio complessivo, che produce sulla base della cooperazione manifatturiera. Ma si tratta di una forma di cooperazione nella quale i lavoratori sono connessi tra di loro solo attraverso la volontà del capitalista, che per mezzo del potere mediatore del denaro opera virtualmente come un Briareo dalle cento braccia, che compie tutte le operazioni del processo produttivo, che quindi ha il diritto esclusivo sul risultato.(9) Pertanto il motore immobile del processo complessivo sembra essere il capitale monetario, personificato dal capitalista, ma la realtà effettiva è diversa ed opposta. La cooperazione tra i lavoratori si manifesta non come risultato passivo della volontà dispotica del capitalista, ma, in contraddizione con l’ideologia individualistica, come coinvolgimento attivo e cosciente del lavoratore, necessario perché l’organizzazione produttiva raggiunga il suo scopo. Questa è la realtà profonda e mistificata della cooperazione capitalista: non è il rapporto salariato, cioè la compravendita della forza lavoro, quindi il potere del capitale, che crea la cooperazione ma è la cooperazione effettiva tra i lavoratori che rende possibile il lavoro salariato, cioè lo rende remunerativo in termini di profitto per il capitalista, condizione di esistenza del capitale. Questa realtà viene negata dal capitalista che al contrario afferma che il lavoro può esistere come tale solo se è produttivo, e il lavoro per il capitalista lo è solo in quanto produce plusvalore.

Pertanto il vero rapporto di produzione va ricercato non nella sfera della circolazione, ma in quella della produzione immediata. Ma rapporto di produzione significa rapporto strutturale, quindi gli altri rapporti economici, in particolare lo scambio, sono parte della sovrastruttura. D’altronde essendo la sovrastruttura il luogo di produzione dell’ideologia, il carattere ideologico dello scambio rende necessario includerlo nella sovrastruttura. Tuttavia il rapporto di scambio non è solo un rapporto di produzione materiale che viene rappresentato ideologicamente, ma è esso stesso ideologia materializzata nel denaro, rappresentazione materiale mistificata del vero rapporto di produzione quale si realizza e si manifesta altrove, nel processo di produzione, anzi sempre più nel processo di lavoro stesso. Si tratta del velo ideologico che occulta il reale rapporto di subordinazione totale del lavoro al dispotismo del capitale, velo che viene creato materialmente nella circolazione. Quindi la circolazione sotto questo aspetto fondamentale, cioè della compravendita della forza lavoro, è parte integrante della sovrastruttura. Come lo è in realtà lo scambio che trasforma il salario in beni di consumo e servizi al consumatore, in quanto il consumo individuale è consumo produttivo, produttivo della forza lavoro e innanzitutto della sua coscienza. Come lo è pure in generale ciò che determina il processo di lavoro come processo di valorizzazione, dove la razionalità ristretta del capitale viene materializzata nelle macchine e nel lavoro parcellizzato. In realtà, tutto il processo di sussunzione reale del lavoro al capitale l’ideologia si manifesta come realtà materiale ben più che come sistema di idee, per quanto anche questo aspetto della produzione ideologica sia enormemente sviluppato (industria culturale, informazione di massa, pubblicità).

Tale produzione ideologica rappresenta un bisogno essenziale del capitale. Ma questo aspetto della produzione capitalistica non è un fenomeno recente, caratteristico del capitale maturo. Il capitale nasce già con una ideologia incorporata, la legge del valore estesa alla forza lavoro, mistificazione della cooperazione coercitiva come libero lavoro salariato. Ideologia che rappresenta una condizione essenziale dell’esistenza del capitale. Di qui la sua natura fortemente ideologica, più che tutte le forme sociali che lo hanno preceduto, dove la brutalità dei rapporti sociali, appena attenuati dalla religione, era la norma. Lo è al punto da permettere al capitale sviluppato di tollerare un sistema politico e statuale fondato sulla democrazia rappresentativa, ottenendone sempre sistemi politici compatibili con la sua esistenza, anzi sistemi che lungi dall’indebolirlo ne divengono il principale sostegno.

L’ideologia ha tale importanza per il capitalismo che non si può pensare di abbatterlo senza distruggere insieme tutta l’immensa sovrastruttura ideologica che ne costituisce lo scheletro. L’aver compreso ciò costituisce tutto il progresso realizzato recentemente dalla teoria rivoluzionaria, frutto come sempre delle ultime vicissitudini vissute dal movimento rivoluzionario, quali la realizzazione del socialismo come capitalismo di stato, per poi abbracciare quello liberistico. Fino a tempi non lontani si poteva pensare che la sovrastruttura si sarebbe spontaneamente dissolta con il crollo delle struttura economica.(10) Nei tentativi finora intrapresi di costruire una società comunista ciò non è accaduto. Queste difficoltà hanno portato ad una svolta nella teoria in seguito alla quale essa ha iniziato a prendere in considerazione problemi fino ad allora posti tra parentesi, nella convinzione che sarebbero stati automaticamente risolti in seguito a trasformazioni strutturali. Di qui lo sviluppo delle teorie anticonsumistiche, che spostano l’obbiettivo principale della critica dalla produzione, liquidata sbrigativamente con un semplice rifiuto del lavoro, al consumo. Si tratta di teorie quale quella situazionista contro lo spettacolo e quella di Invariance sulla dicotomia sussunzione formale e reale. Ma anche le teorie operaiste, benché produttiviste, ne sono state influenzate. Se nelle lotte degli anni 70 prevalgono queste ultime il riflusso susseguente alla sconfitta, che è quella delle teorie produttiviste, segna il trionfo delle prime, determinando un singolare ribaltamento in campo teorico. Le teorie anticonsumistiche propugnarono con rinnovato vigore la priorità della circolazione sulla produzione. La parola d’ordine del rifiuto del lavoro divenne il rifiuto di occuparsi del lavoro come problema per concentrare l’attenzione sulle questioni del consumo: critica della merce e degli stili di vita specialmente, ma anche rapporto tra i sessi e le generazioni, ambientalismo, repressione, antifascismo, antirazzismo e il lavoro ma solo in rapporto all’immigrazione. Ciò ha determinato una proliferazione di ideologie anticonsumiste e l’abbandono completo del terreno della produzione, connotando il movimento attuale di chiari tratti idealistici, come era inevitabile data la sua attuale deriva “immaterialista”, fattore non secondario della sua debolezza e dell’egemonia conservatrice che caratterizza la nostra epoca.

Appare urgente una correzione di rotta. Non un ritorno al materialismo precedente alla svolta, che ha già manifestato i suoi limiti, ma semplicemente occorre ripristinare il primato della struttura, sebbene in forma più articolata. Se deve essere eliminato il principio secondo il quale la sovrastruttura è determinata totalmente dalla struttura, è necessario tuttavia mantenere il ruolo fondamentale della struttura, nel senso che nulla può mutare nella sovrastruttura ideologica in assenza di una crisi della base strutturale della compagine sociale. Cioè questa va considerata condizione necessaria per ogni mutamento sociale, sebbene non condizione sufficiente. Infatti è divenuto chiaro che la sovrastruttura possiede una sua autonomia che gli permette in una certa misura di rimanere influente anche quanto la struttura è mutata. Anzi in generale una civiltà perviene alle sue produzioni sovrastrutturali più mature quando già la sua base strutturale è in declino, come è accaduto per il Rinascimento. Principio questo già enunciato dal materialismo classico come inerzia della sovrastruttura, che può conservarsi per un certo tempo anche quando la struttura corrispondente è in crisi o dissolta. L’elemento innovatore, tratto dall’esperienza storica recente, è dato dal fatto che fino a quando la sovrastruttura sopravvive alle condizioni della sua esistenza, essa può produrre delle temporanee inversioni di tendenza nell’evoluzione di una struttura non ancora stabilizzata. Cioè in un periodo di transizione la sovrastruttura può acquisire rispetto alla struttura in crisi una preponderanza transitoria a causa della debolezza della nuova struttura in via di formazione. Ciò spiega il ritorno del liberismo dopo ciclo di lotte degli anni 70, vera e propria nuova Restaurazione, come anche la precedente Restaurazione dopo la Grande Rivoluzione e le guerre napoleoniche.

LE FORZE PRODUTTIVE

Ma se quelle prima prospettate sono le caratteristiche del rapporto di produzione, non sono quelle ancora le ragioni ultime della duplicazione fittizia del rapporto di produzione, per cui occorre andare oltre per trovare dove realmente affondano le radici del feticismo.

In generale si può affermare che l’ideologia non può di per sé costituire il fondamento di un rapporto di produzione. Infatti secondo il materialismo storico le idee “non hanno storia”(11), piuttosto sono il prodotto della storia reale, cioè del succedersi dei modi di produzione, storia che esse mistificano ma su cui in ultima analisi non incidono.(12) In alternativa l’origine dei rapporti di produzione può essere ricercata in cause extraeconomiche, quale la forza, ma anch’essa da sola nel lungo periodo non spiega nulla. Infatti la rapina per costituire una risorsa economica, cioè stabile, deve trasformarsi rapidamente in un modo di produzione, altrimenti si estingue venendo a mancare l’oggetto della razzia. (13)

Tuttavia le cose non sono così nettamente definite. E’ indubbio che nelle società precapitalistiche la forza delle armi aveva un ruolo determinante nella stabilire i rapporti di dominio, al punto che il concetto stesso di proprietà era assai meno sviluppato che in epoca moderna. Del resto anche in epoca moderna, sotto il capitalismo, epoca in cui la proprietà assume un ruolo fondamentale nei rapporti sociali di produzione, la sua difesa è affidata ancora alla forza delle armi, ma solo in casi eccezionali e per ciò che concerne il regime politico solo transitoriamente.

Escludendo ideologia e forza militare, quale può essere il fondamento della forma capitalistica di dispotismo nella produzione ? Che cosa produce quel determinato rapporto di produzione ? Non rimane altro che la produzione stessa, cioè l’esistenza di una necessità immanente alla produzione stessa. Ciò che determina la produzione in generale sono le forze produttive, cioè i fattori che la costituiscono. Essenzialmente l’oggetto e i mezzi di lavoro, e la forza lavoro. Quindi strumenti di lavoro da una parte e forza lavoro, sia nella sua dimensione individuale ma soprattutto sociale, dall’altra. Per cui si tratta di considerare il livello di sviluppo di tali forze produttive come la vera origine dei rapporti di produzione, criterio che rappresenta il principio fondamentale del materialismo storico.(14)

Naturalmente anche qui non è possibile fare una distinzione nette nel ruolo svolto dallo sviluppo delle forze produttive nel definire i rapporti di produzione rispetto ad altri fattori, ideologici e militari. Si può affermare che lo sviluppo stesso delle forze produttive ha accresciuto la loro importanza, per cui nel capitalismo hanno assunto un ruolo assolutamente determinante, ma non esclusivo. In passato, dato il limitato sviluppo delle tecnologie, una parte preponderante era assunta da altri fattori, quali le armi e anche da influenze ideologiche, quali la religione.
Per valutare il livello di sviluppo delle forze produttive occorre considerarle nella loro specificità. Nel modo di produzione capitalistico, che è quello che qui interessa, quali sono le forze produttive che lo caratterizzano? La principale forza produttiva del capitalismo, sua creazione specifica, è la divisione manifatturiera del lavoro, insieme all’introduzione del macchinismo, conseguenza della precedente. Infatti, poiché per macchina si intende un meccanismo in grado di compiere automaticamente una specifica operazione, molto semplice rispetto all’intero ciclo di lavorazione, di cui costituisce un momento particolare insieme a molte altre, per poter affidare ad una macchina una particolare operazione occorre prima suddividere il processo lavorativo complesso in operazioni elementari. Quindi la cooperazione manifatturiera è condizione del macchinismo. Inoltre, come tutte le forze produttive, la cooperazione è una espressione del lavoro sociale e qui lo è come forma specifica della divisione del lavoro. Quindi essa determina, e ne è a sua volta determinata, un rapporto di produzione, che avrà carattere oggettivo, cioè sarà determinato secondo uno specifico carattere tecnico. Questo è il vero rapporto di produzione. Gli altri rapporti sociali, economici o meno: di scambio, cioè giuridico, politico, cioè gerarchico, militare, cioè di forza, sono solo forme in cui il rapporto di produzione viene realizzato a livello sovrastrutturale, mentre la cooperazione, nel sue duplice aspetto di forza produttiva e rapporto di produzione, costituisce la struttura, che determina la sovrastruttura. In particolare per quanto concerne il rapporto politico, cioè la posizione delle classi nella gerarchia sociale.

Nel capitalismo lo sviluppo delle forze produttive quali la cooperazione e il macchinismo comporta la concentrazione delle risorse in unità produttive sempre più grandi.(15) Ma per governare strutture di questo tipo è necessaria una altrettanto complessa organizzazione della produzione, la cui gestione comporta l’esistenza di un vertice direttivo dotato di competenze sofisticate (16) e di un potere riconosciuto. Tale potere o è fondato su di un accordo fra i produttori e strutturalmente ne rispecchia il reale carattere consensuale, o è dispotico, cioè assoluto, quindi verticistico. Sotto il capitalismo per ragioni storiche, cioè lo sviluppo limitato delle forze produttive, il primo caso è escluso, quindi il potere deve essere assoluto. Ma potere assoluto significa coercizione, per cui questa direzione per essere in grado di rendere esecutivi i piani di produzione deve disporre di strumenti costrittivi efficaci. Questi mezzi non possono essere l’uso della forza, cioè la frusta, come nelle società precapitalistiche, perché la complessità dell’organizzazione produttiva della cooperazione manifatturiera richiede un certo interesse da parte del lavoratore nel lavoro svolto. E’ necessario che il lavoratore possa decidere, almeno formalmente, quale specifico lavoro svolgere, cioè che sia libero fuori dal lavoro in modo da poter considerare il lavoro come una libera scelta. Questo rapporto di produzione, che è un rapporto tra classi, si realizza nel lavoro salariato, dove il lavoratore è formalmente libero possessore di se stesso, cioè della propria forza lavoro, ma impossibilitato ad usarla per sé perché privo dei mezzi di produzione, quindi indigente in rapporto a tale bisogno essenziale. Il capitalista, possessore del capitale monetario, può disporre non solo dei mezzi di produzione ma anche della forza lavoro, presente sul mercato in quanto unico possesso vendibile da parte del lavoratore.

Questo dunque, il capitale monetario, il fondamento del comando capitalista, che gli permette di svolgere una funzione direttiva nella cooperazione, forma assunta dal processo di lavoro, vera forza produttiva del capitale. Allora cosa si intende nel capitalismo per sviluppo delle forze produttive? Essendo la principale e caratteristica forza produttiva del capitale la cooperazione manifatturiera, per sviluppo si intende quello della cooperazione tra i produttori in questo ambito. Ma, pur essendo tale forma di cooperazione creazione del capitale, il principale ostacolo al suo sviluppo è proprio il capitale stesso. Infatti la cooperazione sotto il capitale può esistere solo se vi è un comando dispotico, in quanto il processo di lavoro è bensì svolto dal collettivo dei produttori, ma questo collettivo non appartiene ai produttori, ma al capitale.(17) Questo comando si oggettiva nella direzione centralizzata che caratterizza l’organizzazione del lavoro nella cooperazione capitalista. Tale direzione da una parte rende possibile la cooperazione come processo di lavoro, trovando in parte la necessaria partecipazione attiva dei lavoratori, dall’altra la ostacola in quanto pone la cooperazione come valorizzazione del capitale, incontrando la resistenza, cioè la non cooperazione, dei lavoratori. Ciò determina una bassa produttività del lavoro, cioè un basso sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale. Quindi il capitale crea una forza produttiva di potenza illimitata, la cooperazione, ma al contempo ne ostacola lo sviluppo.

Quindi considerando più a fondo le cose non è tanto il monopolio dei mezzi di produzione del capitalista, ciò che determina la condizione di subordinato del lavoratore. La ragione ultima risiede in una più profonda causa materiale legata al fatto che lo sviluppo delle forze produttive è insufficiente rispetto ai bisogni sia materiali che sociali. Infatti è questo sviluppo limitato ciò che produce la necessità di una direzione centralizzata e dispotica, e questa a sua volta la separazione dei fattori di produzione e la loro attribuzione a classi diverse e contrapposte, come forma di potere dei capitalisti sul lavoro. Tale sviluppo insufficiente significa necessità assoluta di ottimizzare l’uso delle risorse e una accumulazione forzata, funzione che può essere svolta solo con la concentrazione del potere economico in una classe proprietaria che possa usare tale potere per il proprio interesse privato. I bisogni non sono solo quelli materiali, ma anche quelli sociali, ma i primi sono prioritari. Infatti la partecipazione dell’insieme dei produttori al potere amministrativo e decisionale nella produzione, cioè l’istituzione di un potere decentrato e distribuito, comporta dei costi, cioè quello che possiamo chiamare costo del comunismo, sostenibile solo ad un elevato sviluppo della ricchezza sociale. A bilanciare tale fattore di inefficienza vi sono i caratteri positivi della socializzazione della produzione. Da una parte una libera circolazione dell’informazione, ma principalmente la trasformazione del lavoro da attività coercitiva e finalizzata alla semplice sopravvivenza a fattore di realizzazione personale. Ciò che comporta ricadute immediate sulla produttività, vantaggio che sopravanza di gran lunga i costi della socializzazione. Naturalmente i detrattori del comunismo autogestionario sono di parere contrario, ma tale scetticismo è analogo a quello che la rivoluzione borghese dovette superare nel rivendicare la repubblica come forma progressiva di governo, in quanto era considerato ovvio che uno stato non potesse esistere senza un re, senza una personificazione della sovranità. L’esperienza dimostrò il contrario, così è per il comunismo. Ma per realizzare tali vantaggi decisivi occorre un salto di qualità nella socializzazione dei rapporti, salto ostacolato appunto dall’insufficienza della base materiale. Di qui l’ineludibilità di un momento di rottura.

IL MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO: ASCESA E DEPERIMENTO

In estrema sintesi si può affermare che le forze produttive del capitale, cioè la divisione del lavoro manifatturiera e il macchinismo, si sviluppano sulla base di un rapporto di produzione, il lavoro salariato, che ha carattere duplice: sotto il profilo politico: subordinazione del lavoro nella produzione e libertà giuridico-formale nella circolazione; sotto quello materiale: cooperazione e lavoro individuale. Ma vi è una contraddizione di fondo tra forze produttive e rapporto di produzione: la cooperazione è attuata sulla base di un rapporto coercitivo, per quanto la costrizione sia mistificata come libera scelta tra liberi proprietari. La contraddizione nella produzione può sussistere in virtù della mistificazione insita nel lavoro salariato, ma lo sviluppo delle forze produttive rende la contraddizione insostenibile, cioè diviene palese l’impossibilità di una direzione centralizzata. Per cui si manifesta la necessità di una nuova organizzazione del lavoro, non centralizzata ma basata sui gruppi di lavoro, che permetta di realizzare una cooperazione reale, cioè partecipativa. Ma ciò richiede un nuovo rapporto di produzione, caratterizzato dal potere distribuito e dalla proprietà collettiva.

Che questa sia la realtà sociale è la storia a dimostrarlo. Il capitalista è la figura sociale che sta al centro di un processo storico che ha portato alla nascita di un nuovo modo di produzione. Il capitalista dapprima espropria gli artigiani dei mezzi di produzione concentrandoli nelle proprie mani e ottiene questo risultato estromettendo le merci degli artigiani dal mercato attraverso la creazione di officine organizzate sulla cooperazione semplice, che permettono cospicue economie di scala. Si tratta infatti di officine dove molti operai attendono contemporaneamente ad uno stesso ciclo di lavorazione nella sua interezza, ciò che permette al capitalista economie di gestione, rispetto ai costi di produzione sostenuti dall’artigiano isolato. Fin qui il processo di lavoro rimane quello tradizionale (sussunzione formale del lavoro) (18), ma successivamente il capitalista, conquistato il monopolio dei mezzi di produzione e dominando quindi il lavoro, può imporre ai lavoratori un mutamento nel processo di lavoro (sussunzione reale del lavoro). Si tratta della scomposizione progressiva del processo di lavoro fino alle sue componenti elementari, cioè la divisione manifatturiera del lavoro, ciò che comporta prima la dequalificazione della forza lavoro, poi la possibilità di affidare tali operazioni elementari alle macchine. D’altra parte il rafforzamento del comando sul lavoro rimane l’obbiettivo fondamentale del capitalista e le macchine sono lo strumento più efficace per disciplinare la forza lavoro.(19) Ma l’uso delle macchine, se cancella mansioni obsolete (20) crea in misura maggiore nuove specializzazioni e quindi incrementa la divisione del lavoro, rendendo di conseguenza sempre più specialistica ed articolata la funzione di direzione. Tutto questo sviluppo comporta un prodigioso incremento della produttività del lavoro sociale, reso necessario dalla concorrenza che impone incessantemente al capitalista di accrescere la produttività del lavoro.

Questa corsa ad accrescere la produttività per il capitalista è motivata come corsa al profitto in quanto per lui il profitto significa espansione dell’azienda per contrastare la concorrenza. Ma nel capitalismo il profitto è innanzitutto considerato una misura dell’efficienza dell’unità produttiva, la vera garanzia per il capitalista di sopravvivere nella competizione che lo oppone agli altri capitalisti, cioè di continuare ad esistere come capitalista. Per cui l’efficienza è il principio dominante che guida l’azione del capitalista, prima ancora della spinta al guadagno. Una direzione centralizzata è da un punto di vista capitalista senza dubbio la più efficiente, ma da un punto di vista sociale altrettanto sicuramente non la migliore per assicurare il rapporto ottimale tra sfera della necessità e sfera della libertà. Ma tale rapporto è oggettivo in quanto determinato dallo sviluppo delle forze produttive, cioè della ricchezza sociale, quindi dalla produttività del lavoro. (21)

Pertanto il modo di produzione capitalistico, con i suoi rapporti di produzione, nasce e si sviluppa insieme alle forze produttive cui esso ha dato origine, e verrà superato quindi allorché i rapporti di produzione che lo caratterizzano saranno resi obsoleti dallo sviluppo delle forze produttive, cioè quando non saranno più in grado di dar loro una forma sociale compatibile con esse, con la loro realizzazione.

Quindi il quesito che in ogni momento è posto alla teoria è se, perché e come i rapporti di produzione sono incompatibili con le forze produttive. Questo processo di disaccoppiamento tra i due termini è verificato fin nei dettagli nelle transizioni del passato, in particolare in quella dal modo di produzione feudale a quello capitalistico. Quanto al superamento del rapporto di produzione capitalistico, cioè del lavoro salariato, si può scorgere qualche indizio. Strutturalmente la contraddizione si oggettiva nell’esistenza di una direzione centralizzata, luogo del comando capitalistico sul lavoro, in opposizione all’operaio collettivo che produce sulla base di un rapporto di cooperazione, sebbene questa attività assuma la forma del lavoro esecutivo e subordinato. Il limite fondamentale del capitale è il fatto che l’accumulazione e la concentrazione capitalistica procedono senza sosta, ma oltrepassata una certa dimensione il processo di produzione diviene ingestibile per un'unica struttura direttiva centralizzata, in quanto il flusso dell’informazione dal centro alla periferia e viceversa tende a disperdersi. Così già attualmente la direzione deve restringere il suo ruolo di centro di comando dispotico e a sua volta organizzarsi sulla base di una divisione del lavoro, cioè come sinergia tra molte competenze e gruppi di lavoro. Queste commissioni operative studiano i problemi sotto i loro diversi aspetti e preparano sintesi che configurano opzioni semplificate da proporre ai vertici proprietari e incompetenti, che vagliano e scelgono tra opzioni in cui la scelta è già implicita nel modo in cui le opzioni sono presentate, scelta che tutt’al più potrà essere determinata da criteri politici, unica materia nella quale i vertici capitalisti sono competenti. Cioè di fatto i vertici non dirigono più nulla dal punto di vista funzionale, ma solo politico, cioè unicamente nell’ottica del potere. (22) Ciò significa che lo sviluppo della divisione del lavoro manifatturiera ha reso obsoleto il ruolo economico del capitale, quindi anche la sua esistenza come classe. Ma se questo è vero per il capitale lo è a maggior ragione per il lavoro salariato in quanto attività parcellizzata e puramente esecutiva, perché l’attuale sviluppo delle forze produttive (automazione, ricerca di base e operativa, ecc.) se determina da una parte la dequalificazione della forza lavoro, dall’altra rende necessario un ampliamento delle competenze, cioè uno sviluppo crescente della forza lavoro qualificata, che rappresenta una quota crescente della forza lavoro complessiva. Quindi lo sviluppo della cooperazione capitalista tende a moltiplicare le specializzazioni aprendo nuovi settori produttivi, ma al contempo ne allarga i contenuti. Ciò comporta la necessità di ampliare il potere decisionale del lavoro, piuttosto che una sua restrizione, come è avvenuto nelle prime fasi di sviluppo del macchinismo.

Quindi diviene inevitabile una nuova organizzazione della produzione. Ma per passare ad un rapporto di produzione superiore non si tratta di creare nulla di nuovo, ma di portare fino alle estreme conseguenze la tendenza già in atto. Occorre semplicemente sviluppare un rapporto di produzione basato su gruppi funzionali paritari dotati di potere decisionali effettivi, in rapporto permanente fra di loro, e di abolire un centro decisionale ormai superfluo.(23) In sintesi il funzionamento di grandi unità produttive integrate non può che fondarsi sul coinvolgimento paritetico di tutte le funzioni presenti nel processo produttivo. Ma un potere reale non può aversi se non sulla base dell’abolizione della proprietà privata sulle strutture produttive e sull’ampliamento maggiore possibile delle competenze individuali. Cioè si tratta di far entrare la democrazia reale nei luoghi della produzione, con tutto ciò che ne è la premessa necessaria e la necessaria conseguenza, dentro e fuori della produzione.

NOTE

(1) “[…] la direzione capitalistica è, quanto a contenuto, di duplice natura a causa della duplice natura del processo produttivo […] il quale da una parte è processo lavorativo sociale […], dall’altra parte processo di valorizzazione del capitale; ma in quanto alla forma è dispotica.” (Karl Marx, Il Capitale, I, Editori Riuniti, 1964, p.373). Cfr. Karl Marx, Manoscritti del 61-63, Editori Riuniti, 1980, p. 106-7.

(2) Cfr. Manoscritti, cit., pp.215-6. Cfr. Il Capitale, cit., p.109.

(3) “ […] il rapporto capitalistico è più produttivo: una volta perché in esso si tratta di tempo di lavoro, del valore di scambio, non del prodotto, o del valore d’uso; una seconda volta perché il libero lavoratore può soddisfare i suoi bisogni solo nella misura in cui vende il suo lavoro; dunque è costretto dal suo proprio interesse, non da una costrizione esterna.” (Manoscritti, cit., p. 201)

(4) “[…] la combinazione – la cooperazione quale appare nella divisione del lavoro […] come particolarizzazione […] di funzioni nelle sue componenti e riunione di queste […] – ha ora una duplice esistenza: […] tale meccanismo complessivo, sebbene sia […] l’esistenza della cooperazione fra i lavoratori, il loro comportamento sociale […], sta loro d’innanzi come un potere esterno che li domina […] come potere dello stesso capitale […] al quale appartiene il loro rapporto sociale di produzione.” (Manoscritti, cit., p.291)

“Per il lavoratore stesso non ha luogo alcuna combinazione [la quale] è piuttosto una combinazione delle funzioni unilaterali sotto le quali è sussunto ciascun lavoratore […]. L’insieme […] si basa […] su questo suo isolamento nella singola funzione […]. Ma la combinazione non è un rapporto che appartenga a loro stessi […] in quanto [sono] uniti.” (Ibidem)

(5) “Il lavoro effettivo si appropria dello strumento come suo mezzo e della materia come materiale della sua attività. Esso è appropriazione di questi oggetti come del corpo animato, dell’organo del lavoro stesso. “ (Ivi, p. 57)

“Nel processo di produzione la separazione del lavoro dai suoi momenti oggettivi di esistenza [...] è superata. Il superamento di questa separazione che si verifica […] nel processo di produzione, il capitalista non lo paga.” (Ivi, p.174) .

Cfr. anche Marx , Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1958, p. 63-4

(6) “La forza lavoro che trae origine dalla cooperazione è gratuita. Sono le singole capacità di lavoro che vengono pagate e […] vengono pagate come isolate. La loro cooperazione e la forza produttiva che da essa trae origine non viene pagata.” (Ivi, p.271).

“Il lavoratore […] la sua propria capacità di lavoro […] la vende come singolo. Essa diventa sociale non appena è entrata nel processo lavorativo. Questa metamorfosi […] è qualcosa […] alla quale essa non partecipa in alcun modo, che piuttosto subisce. Il capitalista compra simultaneamente molte singole capacità di lavoro, ma tutte come merci isolate, appartenenti a possessori di merci isolati […] e perciò la loro propria cooperazione non è un rapporto nel quale sono esse a porsi, ma nel quale sono trasposte dal capitalista, non una relazione che appartiene a loro, ma alla quale adesso sono esse ad appartenere […]. Non è la loro reciproca unione, ma una unità che le domina […]. In quanto essi, come persone indipendenti, come venditori, […] stanno ciascuno in rapporto con il capitalista, ma non in rapporto l’uno con l’altro.” (Ivi, p.272).

(7) “[Le grandezze di valore] variano continuamente, indipendentemente dalla volontà, dalla prescienza e dall’azione dei permutanti, per i quali il loro proprio movimento sociale assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece si averle sotto il proprio controllo.” (Il Capitale, cit., p.107).

(8) “Gli oggetti d’uso divengono merci soltanto perché sono il prodotto di lavori privati eseguiti indipendentemente. Il complesso di tali lavori privati costituisce il lavoro sociale complessivo. Poiché i produttori entrano in contatto sociale soltanto mediante lo scambio dei prodotti del loro lavoro, anchei caratteri specificamente sociali dei loro lavori privati appaiono soltanto all’interno di tale scambio. Ossiai lavori privati si effettuano di fatto come articolazioni del lavoro complessivo sociale mediante le relazioni nelle quali lo scambio pone i prodotti del lavoro e, attraverso i prodotti, i produttori. Quindi a questi ultimi, le relazioni sociali dei loro lavori privati appaiono per quel che sono, cioè, non come rapporti immediatamente sociali fra persone nei loro stessi lavori, ma anzi come rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose.” (Il Capitale, cit., p.105)

(9) ”[…] ciò che il denaro ha ottenuto […] è un valore d’uso […], vale a dire che ha comperato la materia, il mezzo di lavoro […] ma ugualmente gli apparteneva il lavoro stesso […]. Il prodotto gli appartiene proprio come se avesse consumato la sua propria capacità di lavoro, vale a dire avesse lavorato egli stesso la materia prima.” (Manoscritti, cit., p. 66)

“[…] ciò che io non posso come uomo […] lo posso mediante il denaro.” (Manoscritti economico-filosofici del ’44, Einaudi, 1968, p.154)

(10) Cfr. C. Castoriadis, La sorgente ungherese, reperibile in questo stesso sito

(11) Ideologia tedesca, Editori Riuniti,1958, p.13

(12) Ideologia, cit., ibidem

(13) “Comicissimo il signor Bastiat, il quale si immagina che gli antichi greci e romani vivessero soltanto di rapina. Ma se si vive di rapina per molti secoli, ci dovrà pur essere continuamente qualcosa da rapinare, ossia l’oggetto della rapina dovrà continuamente riprodursi.” (Il Capitale, op. cit., p.113n.); cfr. Ideologia., op. cit., pp. 60-2.

(14) Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, 1957, p.5)

(15) ”L’operare di un numero [..] considerevole di operai, nello stesso tempo, nello stesso luogo, per la produzione dello stesso genere di merci, sotto il comando dello stesso capitalista costituisce storicamente e concettualmente il punto di partenza della produzione capitalista.” (Capitale, cit., p.363); cfr. Manoscritti, cit., pp. 310-2)

(16) “Con la collaborazione di molti […] la cui unità sta fuori di loro, sorge la necessità di un comando […]. Questo comando appartiene al capitale.” (Manoscritti, cit., p.273).

(17) Cfr. nota 6.

(18) “Anche se il modo di lavoro rimane identico, l’impiego contemporaneo di un numero considerevole di operai effettua una rivoluzione nelle condizioni oggettive del processo lavorativo […], una parte dei mezzi di produzione viene ora consumata in comune […].[…] il valore dei mezzi di produzione concentrati in massa non cresce in proporzione del loro volume e del loro effetto utile.” (Il Capitale, cit., pp. 365-6)

(19) “[…] non appena il macchinario è impiegato capitalisticamente […] la giornata lavorativa […] non viene ridotta ma prolungata. […] In primo luogo la mutata forma del lavoro, la sua apparente leggerezza, che riversa sul macchinario ogni sforzo muscolare, così pure l’abilità.[…]; in secondo luogo si spezza l’opposizione del lavoratore, al quale la sua maestria non consente più di ribellarsi; al contrario consente anzi al capitale di sostituire i lavoratori abili con lavoratori meno abili e perciò più soggetti al suo controllo.” (Manoscritti, cit., pp. 348-9)

(20) “Dal semplice aumento generale del pluslavoro […] segue che aumenta la divisione dei rami di attività […]. Giacché si libera tempo di lavoro - e il pluslavoro non crea solo tempo libero, ma libera anche capacità di lavoro […] per nuovi rami di produzione (Ivi, p.202)

(21) Il Capitale, cit., p.648

(22) Cfr. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, 1966, II; Galbraight, Il nuovo stato industriale, Einaudi 1968, VI, VII.

(23) “In quanto la cooperazione richiede un direttore […], sono qualcosa di completamente diverso la forma che questa assume sotto il capitale e che assumerebbe altrimenti, nell’associazione, come funzione particolare accanto alle altre, non come potere che reca ad effetto l’unità […] come estranea […] e lo sfruttamento del lavoro.” ( Manoscritti, cit., p. 274)

Valerio Bertello Torino, 12 agosto 2011