MONDO ANTICO E MODERNITA'
La teoria marxista ha costruito il materialismo storico essenzialmente considerando la transizione dalla società feudale a quella borghese. La trattazione delle fasi storiche precedenti è data in forma schematica nei “Grundrisse”, nelle annotazioni conosciute come “Forme che precedono la produzione capitalista”. E tale è sostanzialmente rimasta anche negli sviluppi successivi della teoria, che non ha conosciuto approfondimenti degni di nota. Non a caso, poiché il carattere pratico della teoria rivoluzionaria rende scarsamente interessante una indagine su epoche troppo remote, anche se ispirata ad una interpretazione materialistica. E in ogni caso costituirebbe un quadro di dubbia utilità, dato che per il marxismo, come per Hegel, è il presente che spiega il passato piuttosto che il contrario. Quindi, da quegli appunti poco di interessante è stato tratto, a parte qualche tentativo di ricavarne una filosofia della storia, intento del tutto estraneo ai propositi di Marx, per il quale tali note erano state abbozzate al solo scopo di spiegare la genesi del capitalismo.
Attualmente però, un tale tipo di ricerche può rivelarsi utile in relazione a certe teorie attualmente diffuse nella sinistra antagonista, che possiamo qualificare come neoutopiche. Quella che ha maggiormente attratto l’attenzione è la teoria della decrescita di Latouche, che per fronteggiare la crisi attuale auspica la riduzione drastica del livello dei consumi e la costituzione di piccole unità produttive autosufficienti. Poiché l’autosufficienza costituiva il fine dell’economia nel mondo precapitalistico, può essere interessante una riflessione sulle fasi storiche che hanno preceduto il capitalismo, al fine di individuare le implicazioni economiche e sociali di tale principio.
Ciò che accomuna tutte le fasi precapitaliste è il rapporto di produzione generale,
che è quello di una società di classe fondata sull’agricoltura, cioè una società dove il mezzo di produzione principale è la terra, la proprietà riservata ad una classe di latifondisti, con la mediazione di un monarca o degli dei, la coltivazione concessa ad una classe di lavoratori in cambio di una parte, o anche della totalità del prodotto, o di giornate di lavoro, cedute alla proprietà. Il rapporto di produzione specifico è il più vario: il lavoratore è posto come schiavo, o servo della gleba, o colono (affittuario) o anche salariato e in parte piccolo proprietario. Marx distingue in questa lunga fase storica diversi modi di produzione: schiavistico, feudale, dispotico, germanico, etc., e vi scorge anche una fase di “comunismo primitivo”. In quanto società classiste in esse la lotta di classe ebbe ampio sviluppo, ma loro tratto comune è che le rivolte rurali che le affliggevano tutte ugualmente fallirono, e l’avvento del capitalismo fu opera non di una classe rurale ma della borghesia. Di qui la staticità che caratterizza questa lunga epoca, che va dalla rivoluzione agricola del neolitico e la fondazione delle prime città fino alla nascita del capitalismo. Qui l’unico movimento storico percepibile è il ciclo costituito dalla sottomissione di un popolo ad opera di un’altro, seguita dalla assimilazione del popolo più arretrato da parte di quello più civile, quindi da una nuova conquista, ciclo che è meglio descritto come fusione di popoli. Considerando solo i cicli a noi più vicini, si può affermare che non solo l’epoca feudale è il risultato di una irruzione di popoli barbarici entro i confini dell’impero romano, ma l’impero stesso è il prodotto di una conquista da parte delle popolazioni italiche seguita da una grande migrazione nelle provincie conquistate, soprattutto quelle occidentali, che spopolò l’Italia. Nelle province i nuovi venuti, che sono membri della classe senatoria ed equestre che si appropriano dei terreni confiscati dallo stato alle popolazioni autoctone o veterani che ricevono un lotto di terra in compenso dei servizi prestati, costituiscono la nuova classe proprietaria, in associazione con una parte della precedente, quella che ha compiuto atto di sottomissione. I nuovi signori, che risiedono in città costituite in autonomie municipali, non coltivano la terra direttamente, essendo l’utilizzazione di manodopera schiavile limitato a certi tempi e luoghi, ma la dànno in affitto (colonato) alla popolazione espropriata, che si trova obbligata, in quanto priva di terra o di terra sufficiente, a coltivare quella già sua per conto dei conquistatori. L’impero si presenta quindi come un vastissimo aggregato di città-stato unificato da un forte potere centrale sostenuto essenzialmente dall’esercito, che è soprattutto esercito di occupazione, stanziale e permanente. Esso è mantenuto con il gettito delle imposte, che però sono gestite dai proprietari stessi, che ne curano la suddivisione e la raccolta tra i coloni, imposte essenzialmente straordinarie, costituite da lavoro coatto e requisizioni. Successivamente la fusione tra popoli soggetti e dominatori trasforma il rapporto di sudditanza in rapporto di classe (concessione della cittadinanza a tutti i sudditi dell’impero: editto di Caracalla del 212), rapporto che assume la forma di opposizione tra città, dove risiedono i latifondisti redditieri, e campagna, sede della manodopera coatta. Ciò determina la rivoluzione del III secolo, dove l’esercito, ormai costituito solo da contadini delle province, si ribella alla aristocrazia urbana. La lotta termina senza vincitori né vinti, ma con la “comune rovina delle classi in lotta” (Marx, il Manifesto). Infatti la restaurazione operata da Diocleziano e Costantino portò dal una monarchia militare, emanazione dell’esercito, all’instaurazione di un oppressivo dispotismo orientale, cioè ad un ritorno dei despotati ellenistici del passato. Tale regressione non valse tuttavia a salvare l’impero che nel IV secolo subì l’urto di da nuove ondate di Germani, Slavi e nomadi asiatici, venendone sommerso in occidente e in oriente costretto ad una lotta per la sopravvivenza. In questo modo iniziò un nuovo ciclo conquista-assimilazione, da cui ebbe origine il medioevo in Europa, con una nuova opposizione tra città e campagna, dove però, al contrario del ciclo precedente, è la campagna che domina la città. (1)
E’ a questo punto che si verifica il vero passaggio epocale, con il superamento di tale movimento storico ciclico prodotto dall’irruzione nella storia di una nuova classe, la borghesia moderna e di un modo di produzione che realmente supera quello precedente. Perciò è vero che la borghesia fu effettivamente la prima classe rivoluzionaria della storia, ma può esserlo perché essa esiste come risultato di un nuovo modo di produzione fondato sullo sviluppo di nuove forze produttive, quella dell’industria moderna. Con ciò si intende il superamento della piccola industria artigianale, fondata sulla divisione del lavoro di mestiere e su mercati locali, che era sempre esistita all’ombra della produzione agricola, superamento che conduce alla creazione della grande industria. Ciò spiega il fallimento di ogni rivoluzione agraria, conseguenza del fatto che il modo di produzione restava sostanzialmente sempre il medesimo, cioè fondato sull’agricoltura.
La profonda differenza tra i due modi di produzione deriva dalla circostanza che le unità produttive agricole - quale che siano le loro dimensioni, dal piccolo produttore indipendente fino alla grande casa padronale o al monastero - sono strutturalmente autosufficienti, cioè producono per l’autoconsumo, non solo per la produzione di alimenti ma perchè includono anche una piccola industria domestica volta a soddisfare tutti i bisogni dell’unità stessa. E non solo sono autosufficienti ma tendono anche a restare tali per il basso livello di produttività, che le costringe ad affrontare situazioni critiche senza riserve, per cui la carestia costituiva una minaccia sempre incombente. La carestia, dovuta alle intemperie e alla guerra, e le epidemie che ne conseguono, appare come una condizione strutturale di incertezza derivante dal basso sviluppo delle forze produttive, cioè tecnologia rudimentale e trasporti difficili.
Ciò determina una economia non di scambio ma chiusa, una economia domestica finalizzata all’autoconsumo. Quello industriale è invece un modo di produzione che richiede per svilupparsi una profonda articolazione della divisione del lavoro e ampi mercati, e può svilupparsi solo su tale base. La divisione del lavoro deve andare oltre quella dei mestieri, svilupparsi all’interno delle officine, che per questo devono espandersi come dimensioni, quindi anche come mercati, ciò quale premessa necessaria allo sviluppo del macchinismo e della scienza applicata, mentre per l’espansione dei mercati sono necessari lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni.
Quindi la definizione di modernità è quella di società e cultura che hanno come base materiale il modo di produzione industriale, quindi mercantile, mentre l’antichità è quella fondata su una economia agricola autosufficiente.
Connessi all’esistenza di una economia a base agricola vi sono anche alcuni aspetti dell’economia antica, a carattere sovrastrutturale, ma non solo.
E’ diffusa una mentalità non produttiva, in quanto il fine dell’attività economica è l’autosufficienza, non la ricchezza in quanto tale. Da ciò consegue, sul piano ideologico, l’assenza delle categorie fondamentali dell’economia. Termini come lavoro, produzione, capitale, e altri, compreso quello stesso di economia, sono intraducibili nelle lingue antiche, almeno nell’accezione moderna, cioè nel significato astratto che assumono nell’analisi economica.
Così come sono assenti le strutture economiche dell’economia moderna, che realizzano, anche se in modo ancora contradditorio, il suo altissimo grado di socializzazione, assente nell’economia antica. Quindi non troviamo una divisione del lavoro sviluppata, la società per azioni, il credito come fonte di capitali da investire, e nemmeno la moneta fiduciaria.
La scarsa considerazione in cui era tenuto il lavoro artigianale in rapporto a quello agricolo, equiparato questo alla virtù del guerriero, entrambi posti su di un piano religioso e nella città-stato connessi inscindibilmente con la cittadinanza. Infatti la proprietà terriera e le armi sono riservate ai cittadini, mentre l’artigianato e il commercio agli schiavi “cum peculium”, ai liberti e agli stranieri. Ciò viene giustificato dalla circostanza che l’artigiano non è libero poiché dipende dal committente, del quale soddisfa i bisogni.
Si nota il mancato sviluppo presso i greci di una tecnologia all’altezza dei notevolissimi risultati ottenuti in campo scientifico. Infatti essi ereditarono la tecnologia dalle civiltà orientali e non andarono oltre, e così i romani dai greci senza apportarvi nulla di nuovo. Comunque in tutto il mondo antico la tecnologia non viene applicata alla produzione, ma solo alla costruzione di apparati volti a meravigliare il pubblico (automi). Tale circostanza si connette all’idea in quel tempo dominante che la scienza debba essere campo di indagine avulso dal mondo materiale, quindi puro esercizio intellettuale.
Normalmente il lavoro produttivo non era svolto da schiavi, e nemmeno da uomini liberi, ma da figure intermedie che vanno dal colono, al servo per debiti, al cliente fino la liberto. La semplificazione del rapporto di produzione nella forma di quello tra salariato e capitalista è tipica del mondo industriale moderno. Di conseguenza manca nel mondo antico il concetto di classe, cioè dell’appartenenza ad uno strato sociale definita economicamente, mentre troviamo quello di ordine (casta, ceto), cioè di una appartenenza definita giuridicamente, categoria che maschera quella di classe.
Il valore d’uso prevale su quello di scambio, per cui si vede il lavoro utile ma non quello astratto (sociale), il bene ma non la merce. Così i rapporti economici appaiono come rapporti personali e assumono la forma della gratuità. Il cliente, il servo, il vassallo ricevono dal loro signore dei benefici in natura (terre, alimenti, oggetti di valore) che equivalgono alla partecipazione al suo reddito, nell’ambito di un rapporto di protezione ricambiata con un impegno di fedeltà: alla munificenza del signore corrisponde la dedizione assoluta del suddito, che si trova sempre in debito col suo superiore. Qui invece di uno scambio di equivalenti, la logica mercantile, troviamo un rapporto fondato sulle norme di un codice d’onore cui ognuno è vincolato, per cui la prestazione gratuita crea un legame che impegna il beneficiato, che è la logica del dono.
Da un punto di vista puramente storiografico l’economia antica pone alcuni problemi. In primo luogo il problema della transizione dal mondo antico al mondo moderno. Le questioni sono due. Perché il mondo antico, in particolare gli stati ellenistici e l’impero romano, benchè fondati sulle città-stato, non giunsero a realizzare il passaggio al modo di produzione capitalistico, che ha carattere prettamente urbano? E quindi, perché ciò è potuto avvenire nel XVIII in Europa? Alla prima questione si è già risposto. Già Marx aveva osservato che nelle società antiche la gran massa della ricchezza era immobilizzata nelle campagne, e l’economia di scambio operava solo alla loro superfice. Perciò tali società non possono superare se stesse ma solo decadere perché il capitalismo non può svilupparsi solo sulla base di una agricoltura volta all’autosufficienza. E’ chiaro che l’assenza di scambio impedisce la nascita della grande industria, ma l’assenza di una industria, cioè il predominio di una economia chiusa di tipo agricolo, blocca la nascita di mercati estesi. Così la città deve rimanere in un rapporto parassitario rispetto alla campagna, che appare tributaria rispetto alla città, oppure decadere e rimanere subordinata alla campagna come nel medioevo. Il problema quindi non è quello del ristagno del mondo antico, ma del perché è nato il capitalismo, cioè l’industria moderna, evento unico e probabilmente irripetibile. La risposta non è univoca. Verosimilmente la soluzione è quella proposta da Marx, che attribuisce lo sviluppo del capitalismo all’espansione dei traffici oceanici, in seguito alla scoperta dell’America e a quella della rotta per le Indie, che rende necessario il superamento delle corporazioni e lo sviluppo della manifattura, e successivamente, con la formazione di un mercato mondiale, la nascita della grande industria e del macchinismo. Nel medioevo quindi la città può sviluppare una industria artigianale che prima si sostiene con il mercato interno costituito dalla aristocrazia rurale, poi con un mercato esterno sempre più esteso, per mobilizzare infine l’agricoltura rendendola capitalistica, cioè che produce per il mercato, trasformando quindi la terra in bene di investimento, e non più risorsa finalizzata al mantenimento di corti feudali e milizie. (2)
Vi è poi la questione del nesso dei caratteri dell’economia antica con il predominio dell’economia domestica. Tale nesso sembra plausibile, ma è ben lontano dall’essere conclusivo, come del resto in tutto tale genere di questioni, per due motivi. Da una parte perché la documentazione sui fatti economici delle epoche passate risulta estremamente scarsa, data la quasi totale assenza di interesse degli storici del passato per tali materie. Dall’altra l’interpretazione di tali materiali da parte degli storici attuali è pesantemente viziato dalle ideologie contemporanee, che fanno scorgere nelle epoche passate gli stessi pregiudizi e gli stessi comportamenti odierni, specialmente nel campo della storia materiale. Nulla di più arduo del mettersi nei panni di uomini di un’altra epoca, senza cedere alla tentazione di specchiarsi in essi e utilizzarli come sostegno di ideologie del nostro tempo.
Naturalmente il problema non è storiografico, cioè accademico. Tutte tali questioni hanno grandissima rilevanza per la teoria rivoluzionaria, ripetto alla quale l’aspetto storiografico si presenta solo come punto di partenza. Infatti, non comprendere la nascita del capitalismo significa non comprendere la sua natura, quindi le condizioni necessarie alla sua scomparsa, e pertanto non essere in grado di operare conseguentemente, almeno per accelerarne la fine. Quindi, nonostante le difficoltà cui si è accennato, occorre proseguire il discorso.
In primo luogo, il materialismo storico, come si è visto, considera la nascita del capitalismo un evento singolare, irripetibile. Ciò significa espellere dalla teoria la filosofia della storia, sia essa di tipo positivistico, con la storia retta da ferree leggi deterministiche, che quella di tipo idealistico, che vede la storia dominata da potenze spirituali ugualmente superiori alle forze umane. Ma nemmeno consente di considerare il capitalismo come un incidente storico da cancellare in vista di un ritorno al passato. Ciò che è accaduto non si può azzerare facendo tornare indietro l’orologio della storia in una sorta di “damnatio memoriae”. La storia segna indelebilmente l’umanità, che è prodotto della propria attività storica, finora inconsciamente. Si tratta di utilizzare la storia finora trascorsa non per il fine (velleitario) di cancellarla, ma per raggiungere questa consapevolezza,.
Ma soprattutto risulta evidente che, se l’agricoltura non è una base materiale adeguata al capitalismo, a maggior ragione non può esserlo per il comunismo, in quanto società superiore. La questione è la divisione del lavoro, di cui si può postulare il superamento in quanto carattere distintivo dell’industrialismo. Le opzioni sono due. La prima prevede un superamento del capitalismo come sintesi dei modi di produzione agricolo e industriale, l’altra, ed è l’opzione della “decrescita”, auspica un ritorno puro e semplice all’economia domestica su base agricola.
Quest’ultima sarebbe un regresso “all’idiotismo della vita rustica” (Marx, il Manifesto), tralasciando poi gli ostacoli pratici, cioè l’impossibilità di parlare di decrescita in un mondo dove le differenze di reddito sono abissali, e dove ancora per questo i Cavalieri dell’Apocalisse possono ancora accanirsi contro l’umanità.
L’altra opzione è quella di non distruggere le forze produttive sociali basate sulla cooperazione, per quanto esse possano essere nocive nel mondo attuale. Questo può essere una prospettiva credibile ed attuabile nell’ambito di una economia della conoscenza, fondata sulla condivisione di un sapere comune generale, sapere che possiamo denominare come scienza unificata, scienza che deve rompere le separatezze e le specializzazioni, innanzitutto quelle relative alla divisione in scienze umane e naturali. Separazione questa che porta ad antinomie paralizzanti anche nelle stessa teoria rivoluzionaria. La nascita di tale scienza non può essere che il frutto dello sviluppo delle tensioni che lacerano il mondo attuale e quindi è sia un risultato che uno strumento, che però richiede da parte di tutti la massima apertura mentale. Dal punto di vista pratico, tale sapere comune ha la caratteristica di essere accessibile nelle sue linee generali a tutti e di essere applicabile a problemi particolari mediante sviluppi specifici affidati a gruppi di lavoro specifici, con membri intercambiabili e assolutamente autonomi. Ciò permetterebbe a chiunque sia di dare un giudizio su questioni generali, che partecipare in qualche misura ad ogni gruppo di lavoro. (3)
Ma, per quanto riguarda il neoutopismo, il rifiuto dell’utilizzazione delle forze produttive sociali non è senza conseguenze. Infatti esso si caratterizza non solo per l’esaltazione dell’autosufficienza ma anche per quella di modalità sociali che appaiono in modo evidente caratterizzare il mondo antico, quindi legate all’economia domestica. La svalutazione del lavoro artigianale e del commercio, il rifiuto della tecnologia, la mentalità antiproduttivistica, l’inesistenza di un pensiero economico, assenza dell’idea di classe, economia del dono, sono tutte caratteristiche della coscienza del mondo precapitalistico che ritroviamo nel pensiero neoutopico. Da ciò consegue che tale pensiero appare non come coscienza del superamento del capitalismo, ma come coscienza nostalgica del mondo precapitalistico, carattere questo che rimanda al pensiero borghese. Si tratta della sua ineliminabile vena romantica, che manifesta ipocritamente un senso di colpa della borghesia per il suo peccato originale, il fatto che essa “ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Essa ha lacerato i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato ‘pagamento in contanti’ “ (Marx, il Manifesto).
Tutto ciò deve essere attentamente valutato. Anche qui il pericolo di cadere nel passatismo può essere evitato ponendosi in una prospettiva in cui il superamento del capitale e l’accesso ad una società superiore si produce come sintesi dialettica tra mondo antico e mondo moderno. Del resto già Marx poneva il comunismo come ritorno la comunismo primitivo in quanto sintesi dialettica tra esso e il capitalismo. Peraltro, si inizia e intravedere la realizzazione di tale prospettiva nei movimenti territoriali a carattere ambientalista, quali il No-TAV, No-inceneritori, No-ponte, e molti altri, che contestano l’uso del territorio e dell’ambiente a fini speculativi. Da una parte si tratta di movimenti quanto meno ambigui, sospesi tra passato e futuro, in bilico tra mitologia romantica tardoborghese e superamento della modernità. Ma dall’altra, se oggettivamente si pongono solo come movimenti contro la rendita, nelle modalità di organizzazione e soprattutto nella prospettiva globale, tendono a porsi come alternativa radicale all’esistente, e in un’epoca in cui la totalità sembra scomparsa nel pensiero rivoluzionario e non solo, costituiscono l’unica corrente sociale che si ponga in questa dimensione. Per questo vanno seguiti con attenzione, anche in quanto momento dichiarimento pratico, l’unico valido nella teoria rivoluzionaria, delle questioni qui delineate.
(1) Un ciclo analogo è quello iniziato dalla conquista dell’impero persiano ad opera di Alessandro, seguita da una imponente migrazione della popolazione greca nelle terre conquistate, che spopolò la Grecia, migrazione che costituì la classe dirigente dei nuovi stati ellenistici.
(2) La causa profonda della nascita del capitalismo è la creazione di un mercato mondiale, in quanto un risultato nrcessario del processo di fusione dei popoli, che porta alla civilizzazione di aree sempre più estese e alla estensione progressiva dei rapporti commerciali ad ogni parte del globo, processo culminato con l’espansione coloniale dell’Europa.
(3) Rimane esclusa l’attività puramente esecutiva, affidata fin dove è possibile a macchine, il resto suddiviso tra tutti i produttori.
Torino, 3 aprile 08
Valerio Bertello.
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