PROBLEMI DEL MATERIALISMO STORICO
LA TEORIA DELLA STORIA
Il materialismo storico si presenta come teoria della storia e soprattutto come strumento di comprensione del presente come storia, ma proprio per questo pone alcuni problemi che andrebbero approfonditi alla luce specialmente della grande crisi degli anni 70 e degli eventi successivi. Nel fare questo si intende qui seguire metodologicamente, almeno in linea generale, i principi della ricerca scientifica. Cioè un altro risultato del presente saggio è vagliare il materialismo storico sottoponendolo al sottile filtro del metodo scientifico e vedere ciò che rimane, cioè se può reggere il confronto con la scienza, oppure deve essere considerato una filosofia della storia, ciò che Marx respingeva recisamente. Qui non si intende far altro che attirare l’attenzione su tali questioni di merito e metodologiche, suggerendo possibili linee di approccio alla loro formulazione ed approfondimento.
Materialismo storico
Il nucleo del materialismo storico è costituito essenzialmente dal nesso stabilito tra forze produttive e rapporti di produzione, per cui i secondi sono determinati dalle prime. Ma è ancor più importante il fatto che mentre le forze produttive si evolvono i rapporti di produzione sono statici, quindi sempre in ritardo su di esse fino ad ostacolarne lo sviluppo, sfasamento che rappresenta la causa di quelle accelerazioni del mutamento storico che determinano le rivoluzioni epocali (Cfr. Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1983, pp.9, 11, 12, 26-30, 51, 52, 56, 59, 60, 63; Manifesto del partito comunista, I; Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1973, pp.34, 94, 104, 105, 113, 114-122, 141; Per la critica dell’economia politica, Introduzione, Editori Riuniti, 1974, pp.5-6).
Marx perviene a formulare questa teoria generale della storia prendendo in esame principalmente la transizione dal feudalesimo al capitalismo, ma anche il passaggio dallo schiavismo al feudalesimo. Nel primo la classe rivoluzionaria è la borghesia ed il settore economico nel quale opera è la grande industria. Quello dominante nella società feudale è invece l’agricoltura, dove il rapporto di produzione vigente è quello tra i latifondisti dell’aristocrazia e i contadini, cioè il rapporto di servitù. (Ma anche quello secondario esistente nell’artigianato cittadino e in generale nella borghesia feudale, che lega maestro ed apprendista). Il nuovo rapporto è quello capitalistico, cioè il rapporto di lavoro salariato già sviluppato nella società feudale declinante e che si vuole estendere a tutta l’economia, soprattutto nell’agricoltura (affittanza e bracciantato invece di signoria e servitù). Ciò che si vuole abolire sono i privilegi dell’aristocrazia, cioè il suo potere politico, non più fondato su un ruolo economico progressivo. Ma lo scontro decisivo, che ebbe luogo con la Grande Rivoluzione, venne ripetutamente rinviato, essenzialmente perché le condizioni storiche erano immature. Movimenti ereticali del XIII secolo, la Riforma e le guerre di religione nel XVI e XVII secolo, accompagnate dalle rivoluzioni olandese e inglese. La decadenza della società antica è un secondo esempio fondamentale considerato da Marx, ma qui le cose andarono diversamente: le rivolte degli schiavi non portarono mai ad un superamento di tale società, che declinò ad un livello di sviluppo materiale e culturale barbarico nella società feudale, dissoluzione che è il riferimento storico della “comune rovina delle classi in lotta” come possibile esito della lotta di classe.
Però considerando questi esempi ed altro materiale storico, si osserva che nel materialismo storico, se il nesso tra forze produttive e rapporto di produzione è posto in modo univoco, non si può dire lo stesso per le modalità della transizione. Cioè, viene posto chiaramente il carattere della società esistente ma non l’orizzonte di quella successiva. Come si configura allora in generale la questione della transizione? Chiarire tale questione è di fondamentale importanza in relazione al passaggio al comunismo, quindi alla capacità di previsione della teoria.
A tal fine è necessario partire dal grande quadro dello sviluppo di tutta la storia finora trascorsa che la teoria propone. A grandi linee il corso storico è determinato dai modi di produzione finora sviluppati, cioè nell’ordine la caccia e raccolta, l’agricoltura, l’industria, cui corrispondono come forme sociali l’organizzazione gentilizia, la città stato o l’impero, lo stato di diritto. Le corrispondenti forme della proprietà sono la proprietà collettiva della terra, la proprietà fondiaria privata, la proprietà privata mobiliare. I rapporti di produzione sono quelli del lavoro collettivo, del lavoro servile (schiavismo e servitù della gleba), del lavoro salariato. Le contraddizioni specifiche in cui si articola quella fondamentale sono quelle tra le diverse forme di proprietà, cioè tra le classi corrispondenti: prima tra proprietà collettiva e proprietà privata della terra, poi tra proprietà mobiliare e proprietà immobiliare, ed infine tra proprietà mobiliare e proprietà della forza lavoro.
Queste contraddizioni hanno messo in moto le dinamiche sociali secondo le seguenti fasi. Originariamente troviamo la tribù che vive in una economia di caccia e raccolta su di un territorio che si è appropriato in competizione con altre tribù, terra di cui rivendica collettivamente la proprietà. Con il passaggio all’agricoltura la proprietà collettiva ostacola la messa a coltura del territorio, quindi sorge la proprietà privata, inizialmente clanica, poi sempre più del capoclan ereditario e della sua famiglia e infine proprietà privata individuale, che si colloca accanto alla proprietà collettiva o terra comune, ponendosi in contraddizione con essa. Con l’agricoltura nasce anche lo schiavismo, già esistente marginalmente nella famiglia, in quanto ora la terra produce un surplus rispetto alla riproduzione del lavoro impiegato, per cui il lavoro acquisisce un valore. Da questi due eventi, apparizione della proprietà privata e dello schiavismo, consegue dalla prima la sedentarizzazione della tribù, inizialmente come villaggio stanziale, poi man mano che si sviluppa la proprietà privata dalla fusione di più villaggi sorge la città, come residenza della classe proprietaria, ciò che permette la nascita di un artigianato indipendente dall’economia familiare, e del commercio. Ma tale sviluppo può seguire una linea alternativa, che successivamente diviene quella predominante. La conquista di un territorio e la sottomissione della popolazione ivi residente, permette ai conquistatori di appropriarsi una fonte di ricchezza permanente, quindi di stabilirsi sulle terre acquisite. Così nei rapporti tra popoli si passa dalla razzia alla conquista. Sorge così la società di classe: i conquistatori divengono la classe dominante, i vinti che hanno perso la loro terra e la libertà, continuano a coltivarla per conto dei nuovi proprietari, che si stabiliscono in città dalle quali dominano i villaggi del contado. Quindi il modo di produzione agricolo genera il rapporto di produzione servile, la città stato e l’impero, quindi due classi egemoni, l’aristocrazia latifondista e guerriera, e la classe produttiva, nella forma della schiavitù, o della servitù, una schiavitù attenuata, e infine due forme di stato. L’antagonismo fra quelle classi si manifesta con ribellioni ricorrenti dei dominati, ma nessuna di esse giunge a rovesciare l’ordine sociale. La dinamica sociale è invece quella della sostituzione di una classe dominante con un’altra di nuova formazione, in generale in seguito ad una conquista, che espropria quella precedente in parte fondendosi con essa, lasciando inalterata, o quasi, la condizione della classe subordinata. Ciò che segna la fine di tale epoca stagnante è lo sviluppo all’ interno di tale formazione sociale di un nuovo fattore economico, la ricchezza mobiliare, sviluppo correlato a quello del commercio e dell’industria, Alla generalizzazione del rapporto di produzione salariato e all’affermazione delle classi corrispondenti, la borghesia e il proletariato. Tale nuova forma di ricchezza entra infine in contraddizione con la ricchezza immobiliare, perché la prima è volta alla produzione di valore d’uso ed al consumo, la seconda all’accumulazione di valore di scambio. Cioè il valore di scambio entra in contraddizione con il valore d’uso, si verifica in modo accentuato il fenomeno del ritardo nell’adeguamento del rapporto di produzione allo sviluppo delle forze produttive, la borghesia si scontra con l’aristocrazia, e nasce la società borghese che infine sconfigge e assorbe la società aristocratica. Dopo di ciò nasce un nuovo antagonismo tra le classi vittoriose e tra le nuove forme di proprietà, mobiliare e della forza lavoro.
Questo quadro pone subito numerose questioni. Per poter parlare di sviluppo delle forze produttive è sufficiente uno sviluppo quantitativo oppure occorre che sia qualitativo? Quali sono le condizioni che determinano per un dato rapporto di produzione uno sviluppo quantitativo o qualitativo? Le classi vengono mutate da tale sviluppo? Inoltre, poiché vi è sempre una classe che si fa portatrice dello sviluppo delle forze produttive, la classe dominante, quando questo sviluppo viene bloccato si ha la sostituzione di questa con un’altra nel ruolo di classe progressiva, ma questa è una classe nuova o già esistente? Tali quesiti hanno rilevanza se si vuole porre la storia come teoria, e come guida per l’azione. Ad essi non si può rispondere se non attraverso uno studio approfondito della storia, soprattutto per quanto riguarda le fasi più antiche.
Ma i problemi posti dal materialismo storico sono soprattutto quelli relativi alle modalità della transizione, in particolare al passaggio al comunismo. La teoria e il quadro storico che delinea offrono delle risposte soprattutto per i casi più significativi, quelli della storia moderna, ma risposte appunto problematiche.
Lo sviluppo delle forze produttive è definito come aumento della produttività del lavoro sociale, aumento a sua volta legato alla divisione del lavoro. Questo può essere ottenuto in due modi: quantitativo, mediante sviluppo delle forze esistenti, o qualitativo, con la creazione di nuove forze produttive. Mentre il superamento è posto in tre modi. Può essere determinato dalla comparsa di nuove forze produttive e di una classe che se ne fa portatrice, modo di transizione esemplificato dalle rivoluzioni borghesi. Oppure dal semplice sviluppo ulteriore delle forze produttive esistenti, la cui eredità è raccolta da una classe nuova, come è il caso dalla nascita del feudalesimo, o già esistente come è chiaramente il caso del passaggio al comunismo.
Considerando le forze produttive, nella nascita della società di classe la base è l’invenzione dell’agricoltura, in quella del capitalismo la base è il passaggio dall’agricoltura all’industria come modo di produzione dominante, nella transizione al comunismo la base è lo sviluppo della grande industria. Riguardo le classi, nelle rivoluzioni agrarie la nuova classe proprietaria è di origine esogena, è un popolo conquistatore, mentre nella transizione al capitalismo è nuova, cioè la grande borghesia, che si distacca dalla piccola borghesia, e in quella al comunismo la nuova classe progressiva è già esistente, il proletariato. Quindi nelle rivoluzioni agrarie abbiamo uno sviluppo quantitativo e una nuova classe proprietaria, nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo abbiamo uno sviluppo qualitativo e una nuova classe emergente. Nel passaggio al comunismo uno sviluppo quantitativo e una classe emergente già esistente.
Da questa casistica emergono alcune considerazioni, soprattutto per quanto concerne la storia moderna e il passaggio al comunismo. In quanto particolare società agraria, nel feudalesimo le classi egemoni sono l’aristocrazia e servi della gleba, ma è una terza classe proprietaria che sviluppa nuove forze produttive e si fa portatrice di un nuovo modo di produzione: la borghesia che promuove la grande industria. Nel quadro marxiano della società capitalistica invece sono presenti solo due grandi classi che hanno assorbito tutte le altre, e sono solo due proprio perché il capitalismo è la società di classe al suo massimo sviluppo, dopo di che non possono essercene altre. E sono una classe numericamente esigua ma proprietaria assoluta ed una, costituita dalla quasi totalità degli individui, spossessata di tutto, come è necessario perché sia possibile la fine di ogni rapporto di proprietà e l’avvento della società senza classi. Questo secondo il classico schema tripartito: società primitiva (naturale), società di classe (pseudo-naturale), con cui si conclude la preistoria dell’umanità (storia incosciente), ed infine il comunismo, inizio della storia cosciente.
Quindi nello schema materialistico, la classe rivoluzionaria non è sempre quella che si oppone a quella dominante come sua antagonista nell’ambito del modo di produzione esistente. In particolare per quanto concerne il passaggio al comunismo non sembra che all’orizzonte del capitalismo sia comparso un nuovo modo di produzione al di là della grande industria (del resto l’industria appare come il limite estremo del lavoro sociale, cioè della divisione del lavoro, di cui riesce difficile immaginare il superamento), né una nuova classe erede di quelle capitalistiche. Infatti Marx ne è consapevole e considera l’avvento del comunismo essenzialmente come il completamento della rivoluzione borghese, il suo proseguimento dopo aver eliminato la contraddizione, cioè l’uso di un processo sociale per un fine privato, che ne ostacola lo sviluppo verso ulteriori realizzazioni. In buona sostanza la borghesia crea due nuove forze produttive: la divisione industriale del lavoro e il macchinismo, che in realtà sono una sola, il lavoro sociale, e il suo complemento: il mercato e la divisione del lavoro mondiale, ma non può svilupparle, per cui il proletariato ne assume l’eredità e libera tali forze produttive dai ceppi che le ostacolano e ne fa la base della propria emancipazione ed insieme di quella di tutto il genere umano, ponendosi come classe universale. Non è possibile inoltre, secondo Marx, che compaiano sulla scena nuove classi, perché la società borghese è la più perfetta società di classe, proprio per il fatto che esse sono ridotte a due, dopo di che si produce il passaggio alla società senza classi, al comunismo. Quindi è il proletariato che si assume tale compito, abolendo se stesso insieme al capitalismo. Infatti, le forze produttive rimangono le stesse, sebbene utilizzate diversamente: il mercato e la divisione del lavoro mondiali, la scienza e il macchinismo in quanto prodotti della cooperazione planetaria; quindi anche il modo di produzione.
Ma questo appare come uno schema ad hoc, mai verificatosi in passato, perché nelle società agricole, dove analogamente non vi furono mutamenti qualitativi delle forze produttive, non vi furono mai mutamenti della struttura di classe, ma solo sostituzioni di classi dominanti.
In conclusione gli schemi di transizione che il materialismo storico contempla sono tre, caratterizzati da dinamiche differenti.
Rivoluzioni agrarie. L’unica vera rivoluzione agricola è quella che ha portato alla trasformazione della società gentilizia fondata sulla appropriazione diretta dei prodotti naturali, cioè la raccolta in senso lato, in società di classe, le società agrarie. Considerando le società agrarie successive, dominate dalla proprietà fondiaria, le rivoluzioni sociali che vi avranno luogo saranno il risultato di un accrescimento solo quantitativo delle forze produttive, non sempre effettivo, o comportano anche un regresso, mutamenti accompagnati, ma non sempre, da un cambiamento non significativo del rapporto di produzione. Tali rivoluzioni si risolvono sempre nella rimozione di una classe dominante ad opera di un’altra, in genere nuova. si ha la sostituzione di una classe aristocratica con un’altra di provenienza quasi sempre esogena, in generale attraverso la conquista di un territorio, rimozione propria di un’epoca in cui l’appartenenza etnica o religiosa sostituiva mascherandola quella di classe.
Rivoluzioni borghesi. Lo sviluppo delle forze produttive è promosso dalla una delle classi produttive fino a quando non trova negli esistenti rapporti di produzione un ostacolo nello sviluppo del settore produttivo dove tale classe opera, trovandosi così nella necessità di abolire tale rapporto. Mentre le altre classi, in primo luogo quella dei proprietari dei mezzi di produzione del modo di produzione dominante, e per questo classe dominante, si oppone a tale sviluppo e soprattutto perché ciò implica l’abolizione dei rapporti di produzione vigenti. Lo sviluppo delle forze produttive ha luogo all’interno della vecchia società, per cui la trasformazione procede sia mediante l’introduzione dei nuovi rapporti nel settore economico prima dominante, cui segue il suo assorbimento in quello nuovo, sia come istituzione di nuovi rapporti politici e giuridici, cioè rapporti che rispecchino la posizione economica della nuova classe, cioè la transizione si realizza come abolizione dei privilegi della vecchia classe dominante. Quindi la nuova società si trova economicamente già sviluppata in quella vecchia, e il movimento storico deve soltanto liberarla dalle precedenti forme sociali ormai superflue, quando non dannose, cioè dalle vigenti forme giuridiche, politiche e culturali. Tale immane scontro tra interessi di classe può terminare con una rivoluzione vittoriosa, e allora si apre un’epoca di sviluppo sociale, o si può risolvere in un compromesso, e allora viene solo procrastinato, oppure può sfociare nella decadenza della società esistente, che sopravvive nella stagnazione o ritorna a modi di produzione precedenti, la “barbarie”.
Rivoluzione comunista. Comporta un mutamento solo quantitativo delle forze produttive, ma un mutamento qualitativo del rapporto di produzione ad opera di una classe già esistente. In realtà si presenta come un caso speciale in quanto si colloca come fase conclusiva della società di classe, in connessione nettissima con la rivoluzione borghese, della quale si presenta come continuazione e compimento.
Quindi rivoluzioni reali, che comportano effettivi mutamenti dei rapporti di produzione sono solo quelle che si svolgono secondo le schema delle rivoluzioni borghesi e di quella comunista. Mentre quelle che seguono lo schema delle passate rivoluzioni agrarie non portano ad un vero mutamento sociale.
Incompatibilità tra materialismo storico e le teorie sulla lotta di classe nel capitalismo.
Due sono le questioni fondamentali poste dal materialismo storico: può applicarsi tale teoria a tutte le epoche? In tal caso come può applicarsi alla società capitalistica, quindi al suo possibile superamento?
Quanto alla prima questione è sufficiente ricordare che, da un punto di vista metodologico (si fa riferimento qui al metodo scientifico, non alla filosofia della storia, che è estranea al materialismo), una teoria non ha bisogno di giustificazioni, ma solo di conferme, il che non significa dimostrazioni. Una teoria non si può dimostrare, perché essa stessa è lo strumento che fornisce dimostrazioni. Se queste corrispondono ai fatti si ha una conferma, nient’altro. Più sono le conferme, più la teoria è attendibile. Ma al contempo nessuna verifica è di per sé conclusiva, perché può essere sempre smentita da nuove verifiche. Entro questi limiti è attendibile il materialismo storico? Si può affermare che può vantare molte conferme, in ogni caso più di ogni altra teoria della storia. Anzi, si può considerare in questo campo l’unica teoria degna di questo nome.
Un altro carattere della teoria che ha rilevanza nella discussione della stessa è la sua struttura logica. Mentre la causa delle transizioni è semplice e univoca, la dinamica è piuttosto complessa, in pratica ogni transizione fa caso a sé. In particolare la teoria del passaggio al comunismo si presenta come una ipotesi ad hoc, cioè spiegazione che si applica solo a questo caso specifico. Tuttavia questo tipo di critiche se possono suscitare dei dubbi, non invalidano metodologicamente l’attendibilità di una teoria.
Infine, quello che qui più importa, il materialismo storico è considerato dal suo autore teoria generale, non semplice schema espositivo della storia moderna, sebbene Marx ne limitasse talvolta la validità alla storia dell’Europa occidentale.
Dato per acquisito che il materialismo storico è una teoria, quindi un discorso di portata generale, esso può applicarsi alla storia contemporanea. Naturalmente non in maniera meccanica, ma tenendo conto delle caratteristiche della società attuale. Ma qui sorge una difficoltà. Lo svolgimento della lotta di classe nella società del capitale non sembra essere coerente con la teoria.
Tale dinamica viene descritta nella teoria dell’alienazione, così come appare già nei “Manoscritti del ‘44” (Cfr. ivi, Il lavoro salariato), e ulteriormente svolta negli scritti successivi e principalmente nel Capitale (Cfr. soprattutto ivi I, IV, 11-13), ripresa poi come teoria operaista italiana (Panzieri). Essa si può condensare in pochi principi. Lo sviluppo delle forze produttive crea non solo rapporti di produzione ma una classe di produttori incompatibili con essi, che appaiono statici rispetto a tale sviluppo, generando una crisi. L’esistenza di una classe di produttori in conflitto con tali rapporti promuove lo sviluppo di nuove forze produttive inteso a disciplinare i produttori, riequilibrando così i rapporti di potere all’interno del rapporto di produzione esistente, cioè ripristinando il comando sul lavoro. Viene così operata una ristrutturazione. Se l’operazione riesce il rapporto di produzione viene mantenuto nel suo carattere essenziale, altrimenti crolla. La prima fase è descritta dal materialismo storico classico, la seconda è la critica del macchinismo presente nel Capitale (Ivi, I, IV, 13) e ripresa da Panzieri.
Quindi, secondo la teoria dell’alienazione capitalista, la classe produttiva, cioè il proletariato, non solo non possiede forze produttive proprie da opporre al capitale, ma si oppone allo sviluppo delle forze produttive esistenti, quelle capitaliste, in quanto esso tende ad aggravare lo sfruttamento poiché rafforza il comando sul lavoro, aumenta la disoccupazione, allunga il tempo di lavoro e ne accresce l’intensità, cioè complessivamente aumenta il plusvalore relativo. Mentre per gli stessi motivi lo sviluppo delle forze produttive è promosso dalla borghesia, cioè dalla classe proprietaria, sviluppo che può essere realizzato solo superando la resistenza opposta dai produttori. E solo dopo di ciò è possibile ripristinare il rapporto di produzione, in parte mutato ma, in assenza di una transizione, invariato per l’essenziale.
Tale quadro dell’alienazione appare palesemente incompatibile con la teoria del materialismo. In ciascuno degli schemi di transizione la classe rivoluzionaria o è portatrice di nuove forze produttive o è fautrice dell’ulteriore sviluppo di quelle esistenti, mentre la classe dominante lo ostacola. Viceversa, quando una classe non è progressista, come nelle rivoluzioni agrarie, essa non determina mutamenti sociali, cioè nei rapporti di produzione. E’ ciò che accade nel capitalismo dove i produttori, cioè il proletariato, sono conservatori, mentre i proprietari dei mezzi di produzione, cioè la borghesia, appaiono come i progressisti. Tale contraddizione del materialismo storico è stata rilevata raramente, ad esempio da K. Korsch (Cfr. Il materialismo storico, Laterza, 1971, p. 28, n.) e da Pannekoek (Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 71-72), ma non adeguatamente sviluppata.
Quindi la teoria presenta una difficoltà che costituisce il principale problema posto dal materialismo, cioè il fatto che il proletariato non si presenta come classe progressiva, come invece è stato per la borghesia, che ha determinato una transizione qualitativa. Ciò accade da una parte per il carattere capitalistico della tecnologia, dall’altra perché il proletariato non appare come portatore di nuove forze produttive, ciò che gli precluderebbe il ruolo di classe rivoluzionaria in una transizione qualitativa. Ma lo stesso problema si pone nel caso di una transizione quantitativa. Considerando nel passato i mutamenti di modo di produzione quantitativi (quando ci sono stati, ciò che è difficile da comprovare), cioè che hanno mantenuto la stessa base tecnica, ciò che si è verificato sinora solo per l’agricoltura, cambiando quindi solo, e marginalmente, il rapporto di produzione (dispotismo negli antichi imperi orientali, schiavitù nelle antiche città stato, colonato nell’impero romano, la servitù nel medioevo) non hanno portato ad una reale progresso materiale e sociale, cioè qualitativo. Dopo il periodo che va dall’invenzione dell’agricoltura (10.000 anni fa) fino alla fondazione delle prime città e alla nascita degli antichi imperi (III millennio a.C.) si può dire che non vi sia stato alcun progresso materiale e sociale. Si osserva comunemente che un romano, ma anche un babilonese, che fossero stati trasportati nell’Europa prima della rivoluzione industriale, non avrebbero dovuto fare grandi sforzi per adattarsi alla nuova situazione. Cosa garantisce che nel passaggio al comunismo, transizione quantitativa, non accada ciò che è già accaduto in passato, cioè l’assenza di un mutamento qualitativo della società? Infatti l’unica transizione veramente rivoluzionaria (tralasciando la fase agricola che ha portato alla nascita delle società di classe), che ha determinato una effettivo mutamento sociale, è stata la rivoluzione borghese, caratterizzata dalla comparsa sia di forze produttive qualitativamente nuove, sia di una nuova classe sociale come classe progressiva.
Queste potrebbero essere le condizioni necessarie per un reale mutamento sociale. In tal caso però, dato che le rivoluzioni borghesi sono state finora le uniche che hanno prodotto un mutamento dei rapporti di produzione e quindi politici, può essere che la fine del capitalismo possa costituire solo il passaggio ad una successiva società di classe, come è accaduto per la fine del feudalesimo e come auspicano i teorici della tecnocrazia.
Sono questi nodi che occorre sciogliere, compito tanto più urgente di fronte all’involuzione reazionaria dell’operaismo e di tanta parte della sinistra, che ha portato a forme di ambientalismo totalitarie e dogmatiche, quando non misticheggianti nell’auspicare un ritorno alla terra, sostanzialmente a modi di produzione superati storicamente e comunque impossibili da ripristinare. E può dar conto anche della deriva riformista del marxismo, conseguenza del fatto che il diritto storico ad affossare un sistema sociale, e quindi l’esistenza della base materiale oggettiva, sono dati solo dall’essere una forza progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive, e se questa è il capitale con esso occorre conciliarsi. Verità sgradevoli queste, che entrambe tali correnti revisioniste si rinfacciano reciprocamente, cioè sostanzialmente gli ambientalisti ai riformisti di promuovere lo sviluppo, i secondi di rimando ai primi di auspicare il contrario.
Occorre quindi rispondere a queste che sono obiezioni che il materialismo pone a se stesso, e la risposta può essere trovata solo nella storia reale, in quella dei modi di produzione, innanzitutto in quella attuale. Infatti l’evoluzione del capitalismo posteriormente a Marx ha fatto emergere alcuni fatti nuovi, che mutano in parte la prospettiva, fatti che possono suggerire delle soluzioni..
ATTUALITA’ DELL’OPERAISMO
Caratteri generali dell’operaismo
Per affrontare tali questioni occorre rifarsi non tanto all’ortodossia del marxismo quanto alle sue correnti marginali, le sole che hanno tentato di sviluppare la teoria in forme compatibili con l’evoluzione del capitalismo moderno. Quella che più è andata avanti su questa strada, pur mantenendosi fedele per l’essenziale al marxismo, è l’operaismo.
L’operaismo, considerando marxianamente il capitale come uno specifico rapporto sociale, lo coglie all’origine ponendosi come critica del capitale a partire dal rapporto di produzione concreto e immediato nel luogo di lavoro. Secondo tale prospettiva esso individua nel capitalismo due elementi fondamentali: la tecnica come scienza applicata e la divisione del lavoro in quanto organizzazione del lavoro. Ciò conduce ad una critica del macchinismo e della separazione tra lavoro direttivo ed esecutivo. Ma questi due aspetti del rapporto di produzione sono strettamente legati: la direzione è l’aspetto teorico del processo produttivo, di cui la macchina è la realizzazione pratica. .Dove per macchina si intende la fattualità stessa del processo produttivo, per la quale è indifferente che sia animata, come l’operaio collettivo della manifattura, oppure inanimata, come il sistema di macchine dell’industria meccanizzata. Per cui la direzione è una stessa tecnica intesa indifferentemente come scienza naturale o scienza sociale applicate, quindi organizzazione e direzione di forze sia naturali che sociali.
Sotto il capitale entrambi gli aspetti del rapporto di produzione realizzano la finalità primaria del processo produttivo: la subordinazione della forza lavoro al capitale in quanto condizione del suo fine ultimo, il profitto. Per questo divisione del lavoro e macchinismo, le più grandi forze produttive (insieme al mercato mondiale) sviluppate dal capitale, hanno una duplice natura a causa della duplice natura del processo di produzione sotto il capitale: processo di lavoro e processo di valorizzazione. Ciò che comporta una ambivalenza nei fini: produttività e profitto, in cui però il primo è necessariamente mezzo per il secondo e quest’ultimo motore del primo. Ma qui si verifica un fatto caratteristico. Nella percezione del capitalista l’unico fine è il secondo, mentre il primo è una dura necessità, che si realizza “dietro le spalle” del capitalista, come azione provvidenziale della “mano invisibile”. Perciò la razionalità, cioè l’interesse generale come fine, presiede al primo processo è viziata dall’interesse privato che muove il secondo. Questo si presenta come il limite invalicabile del capitalismo, già enunciato da Marx: contraddizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione. Si pone allora il problema: è coerente questo limite con il materialismo storico? Cioè, rappresentando questo limite un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, il proletariato è la classe che può risolvere tale situazione di stallo, ponendo l’economia su nuove basi?
La risposta dell’operaismo
L’operaismo di norma non si preoccupa di questioni di teoria generale. Per esso ciò che importa è valorizzare il conflitto e vederne gli sbocchi pratici immediati, cioè i rapporti di potere in fabbrica e in prospettiva la possibilità di passare all’autogestione della produzione da parte dei produttori. Tuttavia tale corrente di pensiero può indicare una possibile soluzione del problema. Infatti esistono tre versioni dell’operaismo, delle quali una in particolare appare compatibile con il materialismo.
La prima forma di operaismo è quello della corrente italiana (Panzieri), continuazione diretta della teoria dell’alienazione marxiana, già esposta più sopra (Cfr. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine, in Spontaneità e organizzazione, BFS, 1994). Però se in Marx la posizione in rapporto alla tecnica è ambivalente, nell’operaismo italiano la tecnica da strumento di liberazione del proletariato si trasforma in apparato di dominio materiale. La condizione della transizione non è più lo sviluppo delle forze produttive e l’ostacolo che esse incontrano nel rapporto di produzione capitalistico, ma nella “intollerabilità” dei rapporti politici che ne risultano, la “schiavitù politica”, cioè nelle conseguenze sovrastrutturali (Ivi, pp.28, 36). La transizione è un atto essenzialmente politico, cui segue l’istituzione di una “nuova razionalità” non produttivistica, cioè un uso socialista delle macchine in luogo di quello capitalista (Ivi, pp.31, 32, 34, 36, 39, e Plusvalore e organizzazione pp.59, 65-68). Qui la critica al rapporto di produzione si concentra sulla tecnica, cioè sul macchinismo, che espropria l’operaio della sua capacità di lavoro trasferendola alle macchine e lo trasforma in semplice accessorio di esse. Ne deriva una di fascinazione inconfessata ad opera di un luddismo non criticato, di negazione unilaterale del capitale in quanto tale e del lavoro stesso, con il rischio di una deriva reazionaria, come in effetti si è poi verificato.
La seconda forma è l’operaismo francese (Cardan). Qui la critica verte sulla divisione del lavoro e vede il fulcro della lotta di classe nella contrapposizione tra lavoro esecutivo e lavoro direttivo e nell’intrinseca contraddizione del loro rapporto (Cfr. Capitalismo moderno e rivoluzione, 2, pp.160-161, in Socialisme ou Barbarie, Guanda, 1969). Il ruolo delle macchine come materializzazione del potere del capitale viene sottolineato (Ivi, pp.69-73), ma non è visto solo negativamente. Infatti, poiché il lavoro esecutivo è posto contraddittoriamente in quanto, se l’esigenza del capitale è quella di avere una forza lavoro totalmente passiva, nello stesso tempo la complessità del sistema di macchine è tale che se il lavoro così fosse il sistema collasserebbe. Ciò significa che le macchine hanno bisogno dell’insieme dei produttori per funzionare, apporto che i produttori erogano gratuitamente agendo non come puri esecutori ma cooperando attivamente tra loro in modo che il flusso produttivo scorra in modo ottimale. Ma il fatto significativo è che tale prestazione collettiva viene erogata spontaneamente rivelando che nella comunità di lavoro rimane, malgrado l’espropriazione realizzata dal capitale, una capacità di lavoro in cui tale comunità si realizza. Ne consegue una visione positiva del lavoro sebbene perennemente sospesa tra cogestione dello sfruttamento e rifiuto di cooperare. Quanto alla transizione al comunismo abbiamo qui nuovamente una visione prevalentemente soggettivista. La contraddizione viene spostata dall’opposizione tra forze produttive e rapporto di produzione, a quest’ultimo in quanto tale. Sebbene il suo aspetto contraddittorio venga posto in relazione allo sviluppo delle forze produttive (Ivi p.162), la contraddizione è interna al rapporto di produzione, quindi si tratta di una contraddizione immediatamente politica. Tale impostazione è resa necessaria in quanto viene dimostrato che il semplice rapporto di sfruttamento non è più all’origine dello scontro di classe (Ivi, pp. 134-139). Quindi il passaggio al comunismo è posto come una questione immediatamente politica (Ivi, pp, 56-58, 196-198, 213), cui seguirebbe una completa ristrutturazione della tecnologia secondo una prospettiva socialista e una conseguente trasformazione del lavoro (Ivi, pp.67-68). In sintesi il motore della storia è la lotta di classe, che ha la sua origine nell’alienazione, non nelle contraddizioni “oggettive” (Ivi, pp.126-129, 141-142, 147, 157).
La terza forma è l’operaismo consiliare tedesco-olandese (Pannekoek, Mattick). Ma esso mette in secondo piano il discorso sulle forze produttive, e quando lo fa rimane nell’ambito di una rigorosa ortodossia marxiana, cioè del materialismo come determinismo storico nella forma della teoria del crollo, ponendo la coscienza come prodotto storico, cioè materiale (Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 12-14, 14-15, 19-20, 34, 71-72, 91, 115-117, 119-123. Mattick, L’inevitabilità del comunismo, in Critica dei neomarxisti, Dedalo,1979, pp.19, 20, 21, 24, 31, 64, 69). Essendo nato in un periodo rivoluzionario, quello che ha visto sorgere i soviet in Russia, i suoi contenuti sono essenzialmente pratici e riguardano le forme di attuazione dell’autogestione nelle unità produttive, investendo soprattutto la questione del potere, pertanto della democrazia reale. Cioè viene considerato fondamentale il lato politico della teoria rivoluzionaria, quindi l’aspetto sovrastrutturale. Tuttavia riguardo i temi centrali della teoria, nella misura in cui vengono sviluppati, si nota una concordanza maggiore con la corrente francese. Infatti rispetto la tema centrale del lavoro la valutazione è essenzialmente positiva, sia per la divisione del lavoro (Pannekoek, cit., pp. 5, 6-7) che per il carattere positivo del lavoro in quanto realizzazione dell’individuo. Infatti l’essenza alienata del lavoro salariato non intacca il carattere umano del lavoro, che sarà prontamente ripristinato, come carattere però del lavoro sociale, con l’instaurazione del comunismo (Ivi, pp. 7-12). E’ inoltre assente la demonizzazione della scienza e della tecnica, anche se non sfugge il loro aspetto di strumento di dominio della tecnica nel capitalismo (Ivi, pp. 7, 23, 61-63), e viene sottolineato il loro contenuto progressivo rispetto al comunismo, soprattutto le scienze sociali (Ivi, pp. 65-66), mentre però sono ignorati i rischi che si corrono lasciandone la gestione agli specialisti (Ivi, p. 25).
Compatibilità dell’operaismo
Condizione necessaria per avere una funzione progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive del lavoro è un rapporto quanto meno contraddittorio, quindi dialettico, con il lavoro stesso. Cioè una classe progressiva è tale se è classe produttrice ed ha con il lavoro sociale un rapporto complessivamente positivo, per quanto le condizioni sociali in cui questo si svolge possano essere anche insoddisfacenti. In particolare il proletariato, proprio in quanto classe rivoluzionaria, avrà un rapporto positivo con il lavoro sociale così come si presenta sotto il capitalismo, quindi con il lavoro come cooperazione e come macchinismo.
L’operaismo italiano, in quanto discendente in linea diretta dalla teoria dell’alienazione, che peraltro estremizza in un senso antitecnologico, è incompatibile con il materialismo storico. Infatti il rapporto con la tecnica è quello di un rifiuto il cui superamento è posto solo nel comunismo realizzato, dove la sua condizione è la nascita di una nuova tecnica. Ma l’incompatibilità sta specialmente nell’opposizione al lavoro, da cui deriveranno le teorie oggi molto diffuse del rifiuto del lavoro, della estinzione del lavoro etc., di cui l’operaismo italiano non è responsabile ma ne costituisce certamente l’origine.
Invece l’operaismo francese è coerente con il materialismo storico, come anche l’operaismo consiliare, nella misura in cui entrano nel merito di tale questione. Qui l’operaio, nonostante l’alienazione, mantiene un rapporto se non gratificante almeno dialettico con il lavoro, del quale può constatare la duplice natura, cioè qualcosa che da una parte appartiene al capitale ed è usato per scopi a lui estranei ma dall’altra si presenta come concreta possibilità della propria realizzazione. Se questo è il rapporto del produttore con il lavoro quello con le macchine, poiché lavora inserito in un sistema di macchine, sarà un rapporto contraddittorio ma non di rifiuto radicale. Questo atteggiamento verso il lavoro e la tecnica corrisponde al nascere di una forma di coscienza per la quale “il lavoro diviene la prima necessità per l’individuo” (Marx). Ciò rimane vero anche se il proletariato tende al tempo stesso a sottrarre al capitale quelle che sono le proprie risorse potenziali. In realtà sottrae al capitale non tanto le proprie capacità individuali, non solo quelle ma soprattutto il lavoro sociale, cioè la cooperazione (che peraltro non gli viene pagata). Ma siccome può realizzarsi solo come individuo sociale, cioè in primo luogo come produttore collettivo, questa viene in parte erogata, e ciò anche perché altrimenti la produzione verrebbe paralizzata. Tale cooperazione viene sì prodotta ma in misura molto al di sotto delle potenzialità, per cui il proletariato si trova in possesso di una fondamentale forza produttiva ma nell’impossibilità di usarla e quindi in perenne contraddizione con se stesso.
Ma, nonostante tale ambivalenza, l’operaio può considerare lo sviluppo delle forze produttive, in particolare della cooperazione, identico alla propria realizzazione individuale, sebbene in forma alienata, e può vedere la soluzione di tale contraddizione solo nel superamento del capitalismo e nella riunificazione delle funzioni direttiva ed esecutiva.
La questione può apparire risolta ammettendo la persistenza di un valore del lavoro anche nel proletariato moderno nonostante l’estrema decadenza del lavoro come lavoro esecutivo, in quanto il capitale stesso sviluppando le forze produttive deve promuovere la sua riqualificazione. Ma vi è anche qui il pericolo di una deriva passatista, connessa al fatto di trasferire al lavoro frammentato e dequalificato nella fabbrica moderna, le caratteristiche dell’epoca precapitalistica, quando l’artigiano era padrone del suo mestiere e presiedeva allo svolgimento di tutto il percorso seguito dal prodotto, dalla materia grezza al prodotto finito e anche alla vendita. Cioè occorre non cadere nella tentazione di ritornare alla divisione del lavoro artigianale. E’ necessario quindi riprendere da capo il discorso ed ampliarlo.
L’OPERAISMO SUPERATO
La prospettiva moderna
Il punto fondamentale è se la storia recente ha visto sorgere una nuova forza produttiva. L’idea più ovvia in proposito è quello dello sviluppo dell’informatica e delle sue conseguenze nella nascita di un nuovo modo di produrre. Ma se si vuole individuare qualcosa di veramente rivoluzionario occorre ampliare lo sguardo e considerare l’informatica come l’aspetto più notevole del recente sviluppo di una nuova organizzazione della produzione, sebbene non realmente nuova ma che sta diventando il paradigma dei processi produttivi più avanzati. Essa considera la produzione non come risultato della manipolazione diretta di materia e strumenti da parte del produttore, ma come un modo di produrre dove la “interposizione dell’utensile tra sé e l’oggetto di lavoro” viene sviluppata all’estremo, considerando produzione reale sempre più quella delle macchine automatiche e programmabili, e la produzione di queste come risultato della produzione dei produttori stessi. Tutto ciò è il risultato di due nuove forze produttive, la scienza applicata come servizi alla produzione e i servizi sociali intesi come produzione di forza lavoro qualificata. Quindi la nuova forza produttiva va individuata nei servizi in quanto lavoro indiretto, cioè lavoro cognitivo e relazionale dispiegato, quindi lavoro sociale giunto al suo massimo sviluppo.
La classe latrice di questa forza produttiva è quella dei tecnici, che in effetti si distingue da quella classica dei produttori diretti, la vecchia classe operaia. per il fatto che non è stata spossessata del controllo sul processo di lavoro. Infatti quello precedente, fondato sul lavoro diretto è stato sostituito sempre più da processi automatici, che costituiscono il processo moderno, fondato sul lavoro indiretto dei tecnici, non sostituibile con macchine. Inoltre, per quanto concerne la collocazione territoriale, si assiste ad un processo analogo a quanto è accaduto alla borghesia che prima aveva raggiunto una sua autonomia sviluppando un proprio ambiente separato da quello della campagna, l’area urbana come proprio territorio, separandosi poi anche dagli artigiani tradizionali, la piccola borghesia feudale chiusa nelle corporazioni e nei suoi limitati privilegi. Così anche per la classe dei servizi è apparso necessario separarsi dal mondo della produzione corrente, cioè dall’industria tradizionale, quella del lavoro diretto, e trovare l’ambiente adeguato al suo sviluppo. Essa lo trova nel territorio, nelle sterminate periferie degli antichi centri urbani che, saldandosi quasi senza soluzione di continuità con i piccoli centri di provincia, costituiscono in realtà grandi conurbazioni dove si è creato un nuovo paesaggio che non è più ormai urbanisticamente né città né campagna, dove l’attività non è né produzione né consumo, e il tempo né tempo di lavoro né tempo libero. La figura sociale corrispondente è in positivo quella del professionista “free lance”, dotato di una propria qualificazione derivante da una vasta e multiforme esperienza e da una formazione continua in più campi specifici, esperto in relazioni umane così come delle tecnologie materiali. La sua caratteristica principale è la mobilità e la capacità di adeguarsi rapidamente a nuove situazioni così come a cambiarle. Considerata in negativo questa figura è quella del precario, senza condizioni di esistenza stabili, senza un futuro prevedibile, in balia del mercato non più solo locale ma mondiale. Si tratta di due aspetti contraddittori della medesima condizione sociale.
Questa prospettiva è una ampliamento e specificazione della seconda forma dell’operaismo, e come questa è coerente al materialismo storico ma in modo più puntuale, pur tenendo conto del carattere del capitalismo quale fase terminale della società di classe. In questa caratterizzazione il proletariato dei tecnici, in quanto classe produttiva, deve lottare contro il capitalismo per liberare le forze produttive sociali (materiali: le macchine, intellettuali: la scienza, in sintesi, la cooperazione) dalla falsa razionalità capitalistica, cioè dalla duplice natura di attività sociale e insieme di fine privato.
La cooperazione è una forza produttiva di cui il proletariato ha effettivo possesso, sia individualmente che collettivamente, e della quale non può essere espropriato. La scienza è stata l’arma che ha permesso alla borghesia di scalzare il dominio feudale, ma con lo sviluppo dell’industria questa forza produttiva viene soffocata. Inoltre, dopo che la borghesia ha cessato di avere un ruolo innovativo nella produzione, cioè dopo aver creato la cooperazione planetaria, essa ha un ruolo parassitario in quanto proprietà che si limita a incamerare profitti. Ora la scienza è prodotta come teoria e gestita come tecnica dal proletariato moderno, quello dei servizi. Ma l’asservimento dei produttori e gestori (indiretti: servizi alla produzione, indiretti di secondo grado: servizi sociali) di tale forza produttiva è un freno al suo sviluppo. Un freno oggettivo perché il capitale promuove uno sviluppo selettivo, cioè coerente con i suoi fini, ma anche soggettivo, perché si tratta di un prodotto collettivo, che necessita per gli individui coinvolti di libere relazioni sociali. E’ precisamente in ciò che si configura il principale impedimento che il capitale frappone allo sviluppo delle forze produttive sociali. Infatti questo può avere luogo solamente e necessariamente nella libertà ed universalità delle relazioni sociali. Questo carattere delle attuali forze produttive è divenuto tangibile proprio con l’integrazione che nel ciclo capitalistico si è verificata tra produzione e consumo. Ciò appare conseguenza del passaggio al lavoro indiretto, cioè ai servizi come produzione dei fattori di produzione: macchine e forza lavoro qualificata, quale ambito egemone del lavoro produttivo. Ambito che è quello dei servizi al consumo per la riproduzione della forza lavoro e dei servizi alla produzione come produzione dei mezzi di produzione, il lavoro diretto decade (da cui l’ideologia della fine del lavoro, del rifiuto del lavoro, etc.).
Conclusioni
La prima forma di operaismo, dunque, deve essere considerata superata, in quanto non coerente con il materialismo storico, e quindi in definitiva non marxista e tendenzialmente più affine ad una visione anarchica della storia, quindi antistorica. Infatti essa riflette un rifiuto immediato e radicale della tecnica, di tipo luddista, in quanto fonte di disoccupazione e lavoro come asservimento ai ritmi delle macchine. Questa corrente costituisce l’ideologia di quella forma di coscienza corrente all’epoca in cui la tecnica era posseduta direttamente dai capitalisti stessi e successivamente dalla classe media. Tale ostracismo implica la negazione di qualsiasi ruolo progressivo al proletariato (almeno secondo la corrente nozione di progresso, e non si voglia chiamare tale la reazione) e può terminare solo in un rifiuto radicale del mondo attuale, concepito non come contraddittorio, cioè un mondo per il quale “la mano che ferisce è quella che risana”, ma come pura negatività, quindi come realtà non dialettica, priva di superamento, da rifiutare nichilisticamente, per creare arbitrariamente una realtà ex novo, cioè una utopia classica dove viene formulato un progetto fondato su un profetico “dover essere”, di fatto dogmatico e settario, cioè non libero e universale.
La seconda forma di operaismo è più coerente. Innanzitutto perché si radica storicamente in una prospettiva progressiva, cioè nella II rivoluzione industriale, che segna la vera nascita della scienza applicata, che in precedenza aveva una esistenza più che altro teorica ed accademica, e aveva accompagnato l’ascesa della borghesia soprattutto sul piano ideologico, mentre la I rivoluzione industriale aveva avuto carattere prevalentemente empirico. Così anche segna la nascita dell’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo, poi fordismo), della scienza applicata (macchine utensili, poi automazione) e dello stato sociale. Forze produttive queste che promuovono la costituzione della parte più avanzata del proletariato in addetti ai servizi, cioè in classe del lavoro indiretto.
Considerando infine le prospettive non ortodosse, tale forma di operaismo può svilupparsi in due direzioni. La prima è quella dello sviluppo della classe dei tecnici come nuova classe dominante, e la possibilità sia che la fine del capitalismo concorrenziale consenta lo sviluppo di una forma di capitalismo tecnocratico dominato da grandi monopoli o anche costituito in un capitalismo di stato più o meno larvato. A ciò corrisponderebbe una società non più fascista o stalinista, ma strutturata in una forma di democrazia plebiscitaria fortemente autoritaria, fondata sulla manipolazione delle coscienze, in una sorta di dittatura sottotraccia. Prospettiva questa tutt’altro che irrealistica, visti questi chiari di luna.
Tuttavia la seconda forma di operaismo, non solo è più accettabile, in quanto coerente con il materialismo e alla versione marxiana della transizione, ma lo è anche perché come ogni teoria della transizione, lascia adito ad una prospettiva utopica. Infatti qui può trovare le condizioni per la propria realizzazione un ritorno dell’utopia. Un ritorno però in grande stile, che non sia fuga o separazione, ma creazione all’interno di un mondo che pur sta imputridendo, di una consapevole egemonia fondata su una base materiale superiore, cioè sul possesso reale come “uomini nuovi”, di forze produttive superiori, quindi di una visione del mondo superiore. Si tratta quindi di una prospettiva post-utopica, propria di una classe che ha creato il suo mondo non fuori ma dentro a quello vecchio, e si accinge quindi a farlo proprio assimilandolo a sé, partendo da quello che essa già è, non da un “dover essere”, che non può mai essere, come in realtà deve se vuole porsi come egemone, l’annuncio di una vittoria già conseguita, ma la consolazione per una sconfitta, se non definitiva, tale da allontanare per un tempo indefinito la vittoria.
Dicembre 2008
Valerio Bertello
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