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CAPITALE E FORME SOVRASTRUTTURALI

I. LA SOVRASTRUTTURA POLITICA

Attualmente nelle analisi come nella percezione collettiva non solo si constata, come fatto abbastanza ovvio, che nel mondo capitalista si è instaurata una egemonia di posizioni conservatrici o anche reazionarie, ma è pure ricorrente l’idea che si sia di fronte ad un ritorno del fascismo. Ma se la prima affermazione è di per sé quasi scontata, la seconda, che viene posta come sua conseguenza, non lo è invece affatto, e va esaminata più a fondo. Che il capitale alterni fasi di sviluppo in cui mostra un carattere progressivo ad altre in cui si presenta in forme reazionarie, è un fatto più volte rilevato nella storia, ma occorre tenere presente che in generale nell’evoluzione di una società ben raramente questa alternanza si verifica come semplice ripetizione. Anzi non appare mai come semplice reiterazione di fasi già superate, circostanza che era già stata notata da Marx e affermata nel noto aforisma da Marx nel tracciare la parabola percorsa da Luigi Napoleone, secondo il quale nella storia una stessa vicenda si presenta una prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Ciò significa semplicemente che in tali ricorsi storici occorre esaminare attentamente le condizioni materiali che sono alla loro base e individuare sulla loro scorta non solo le analogie ma anche le differenze, talvolta occultate dalle prime, dato che “La tradizione di tutte le generazioni scomparse”, cioè i fantasmi del passato, “pesa come un incubo sulle le menti dei viventi”, e impedisce loro di prendere coscienza di quanto stanno storicamente realizzando. Si tratta di quelle istituzioni che sono sopravvissute a se stesse e dei sistemi di pensiero, cioè le ideologie, superate dalla realtà materiale, soprattutto quelle politiche e giuridiche, che occorre analizzare e rapportare alla loro base economica.

1. NEOLIBERISMO

La periodizzazione marxiana riconosce nello sviluppo del modo di produzione capitalistico due momenti: il dominio formale e il dominio reale. Il primo, che corrisponde al sorgere della manifattura, vede il capitale impadronirsi del processo produttivo, ereditato dalla produzione artigianale, senza modificarlo, e lo sfruttamento del lavoro è ottenuto mediante il prolungamento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto). Sulla produzione manifatturiera si fonda la sovrastruttura politica che fa da cornice a tale processo, la monarchia assoluta mercantilista, che ha la sua più compiuta espressione in Francia. Nel secondo momento, che coincide con la prima rivoluzione industriale, il capitale trasforma il processo produttivo secondo le sue esigenze, introducendo le macchine e incrementando la divisione del lavoro, in modo che lo sfruttamento del lavoro è ottenuto mediante la sua intensificazione (plusvalore relativo). La forma politica corrispondente è quella dello stato liberale, che raggiunge lo sviluppo più elevato in Gran Bretagna.
La storia successiva mostra che il capitale ha operato altre trasformazioni nel tessuto produttivo e sociale, per cui ora è possibile riconoscere nell’ambito del dominio reale ulteriori fasi di sviluppo del capitale. Nel contesto del dominio reale si è verificata un’altra trasformazione, una seconda fase che corrisponde alla seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da una parte dall’aver toccato il limite estremo della divisione del lavoro (taylorismo e applicazione della scienza alla tecnica) e dalla conseguente separazione radicale del lavoro esecutivo da quello direttivo. Mentre dall’altra la necessità di eliminare gli squilibri tra le diverse forme del capitale (capitale monetario, capitale produttivo e capitale merce) induce il capitale a organizzare la circolazione di merci e denaro come momento essenziale del ciclo, in quanto qui ha luogo l’assorbimento della produzione, cioè la metamorfosi del capitale merce in capitale monetario, quindi la realizzazione del profitto e la riproduzione della forza lavoro, sviluppo che vede la nascita dello stato sociale e del consumismo. Una terza fase è quella che viviamo attualmente, quella della rivoluzione informatica, quale estremo limite del macchinismo.
La prima fase del dominio reale, che corrisponde alla prima rivoluzione industriale, ha avuto come come forma politica la democrazia rappresentativa e come sfondo ideologico il liberismo. La seconda fase del dominio reale si può caratterizzare dal punto di vista sovrastrutturale a partire da quel complesso di elementi sociali che vengono comunemente associati all’idea di fascismo, nella larga accezione di stato centralizzato ed autoritario. Cioè la forma politica è lo stato corporativo o sociale, mentre l’ideologia associata è il fascismo, ma non solo. Dal punto di vista strutturale occorre associarvi anche il keynesismo. Per la terza fase la forma politica è il presidenzialismo o democrazia autoritaria e la sua ideologia è il neoliberismo. La prima fase, poiché rappresenta la base economica del trionfo della borghesia sulla società feudale, ha carattere progressivo e così anche le sue forme politiche e ideologiche. Gli sviluppi successivi consolidano la rivoluzione borghese ma ne rivelano anche il limitato carattere di classe. Quindi perdono il carattere progressivo e per realizzarsi devono contraddire sempre più la superficie sovrastrutturale del dominio borghese, cioè il suo carattere democratico, mantenendolo però nella sfera ideologica, la cui importanza come strumento di dominio cresce progressivamente.
In particolare nella seconda rivoluzione industriale mutano i rapporti di produzione in quanto la concentrazione del capitale conferisce ad esso carattere oligopolistico, fenomeno che determina la fine della concorrenza e con essa del liberismo, cioè del capitale come forza storica progressiva. Tale contraddizione tra struttura illiberale e sovrastruttura liberista fa entrare in crisi anche il pensiero borghese in quanto pensiero dominante, per cui viene meno anche il controllo sociale della borghesia, cioè il controllo politico della borghesia sul proletariato. Di qui la necessità per lo stato borghese di assumere carattere autoritario
Infatti, per quanto concerne il fascismo storico esso può essere definito come la mobilitazione della classe media, attuata da una borghesia in allarme, contro il proletariato. La causa contingente di tale scelta strategica è stata per la borghesia il pericolo di contagio susseguente alla rivoluzione russa, ma quella più profonda derivava dalla necessità, questa strutturale e conseguente al passaggio al taylorismo, di disciplinare il proletariato, nel momento in cui si determinava la trasformazione dell’operaio di mestiere in operaio generico, mutamento strutturale che metteva in crisi la sovrastruttura, cioè l’egemonia ideologica della borghesia. Lo stato liberale, che accettava il conflitto di classe ed in quanto stato apertamente classista si assumeva direttamente i compiti repressivi, diviene corporativo, cioè fondato su una collaborazione di classe imposta autoritariamente, stato che così può collocarsi formalmente al di sopra delle classi, come stato etico. Di conseguenza lascia la repressione ai corpi paramilitari di partito, che però hanno mano libera solo in quanto strumento per la presa del potere, dopo di che devono accettare di subordinarsi allo stato. Tale sviluppo viene presentato come una riconciliazione di classe, che maschera uno scambio politico in cui contestualmente alla messa in mora della lotta di classe viene istituito lo stato sociale, cioè sono riconosciuti i diritti del cittadino in quanto lavoratore. Questa trasformazione della democrazia borghese in stato autoritario non si produce dappertutto ma solo in quei paesi dove lo scontro sociale è più aspro. Ciò accade in paesi come la Germania e l’Italia, dove il capitalismo si è sviluppato in ritardo rispetto ad altre aree a capitalismo maturo, come i paesi anglosassoni. Infatti, poiché la sovrastruttura segue in ritardo lo sviluppo delle forze produttive, in tali paesi, anche in Germania e proprio per la rapidità del suo sviluppo capitalistico, permangono potenti residui di ideologie appartenenti a epoche anteriori, che fanno da supporto allo sviluppo del fascismo. In altri paesi, quelli a capitalismo maturo, la transizione alla seconda rivoluzione industriale può aver luogo senza abbandonare le forme democratiche. Cioè l’opposizione del capitale al movimento rivoluzionario avviene attraverso il movimento stesso, per mezzo della cooptazione nelle istituzioni capitalistiche della socialdemocrazia. In particolare attraverso la trasformazione dei sindacati in strutture istituzionali cui è demandata la contrattazione del “giusto” prezzo della forza lavoro
Tali due strategie del capitale appaiono alla sua superficie ideologica incompatibili, ma se si guarda alla sua base materiale, cioè ai rapporti di produzione, si può constatare che significativamente in tutti gli stati, in quelli democratici come in quelli autoritari (e in quelli capitalisti come in quelli socialisti), si afferma il taylorismo e l’organizzazione burocratica del lavoro, e lo stato oltre che stato sociale appare in generale come supremo garante della stabilità dell’economia attraverso varie forme di pianificazione e in generale di direzione dell’economia. Le ideologie politiche, democrazia e fascismo, saranno solo lo strumento propagandistico per combattere le guerre imperialistiche conseguenti alla nuova fase di sviluppo capitalistico. E anche il comunismo, quando verrà messo al servizio della politica di potenza degli stati socialisti. La storia del rapporto tra il capitalismo e i totalitarismi del ventesimo secolo mostra tangibilmente la capacità del capitale di utilizzare per i suoi scopi ideologie del tutto opposte al capitale, e anche fra di loro, e come esso possa superare proprio sul piano ideologico contraddizioni apparentemente insanabili, quindi come la lotta sul piano dell’ideologia sia fondamentale per il capitale.
Nella attuale società neoliberista la classe media scompare, in quanto il proletario non si distingue più dall’impiegato, dal tecnico, dal professionista, per cui il disciplinamento di questa classe totale deve essere affidato direttamente allo stato. Ma esso non deve perdere la sua apparenza di neutralità, quindi può assumersi tale compito solo operando una scissione tra apparenza e realtà, ciò che accentua l’importanza dell’ideologia nel mantenimento degli equilibri sociali. Infatti nella fase taylorista il capitale assume contemporaneamente due forme apparentemente contrapposte: lo stato democratico e quello autoritario, o fascista. Il primo quale incarnazione della grande borghesia, il secondo della piccola borghesia. Ora, non potendo più appoggiarsi alla classe media lo stato deve assumere tutti e due i ruoli: deve apparire democratico rimanendo nella sostanza autoritario. Pertanto, mentre in passato poteva alternare secondo la necessità le due forme, attualmente lo stato, quindi la grande borghesia, deve agire autoritariamente salvando la forma democratica. E’ il regime della democrazia autoritaria.

Tale scissione si produce in ogni settore dell’attività sociale.
- CLASSI. Il proletariato appare come classe media, la quale, suddivisa in sottogruppi, che diviene classe onnicomprensiva, in cui la borghesia figura come strato superiore e quello inferiore non come proletariato ma come emarginazione. Quindi le classi scompaiono in una confusione di categorie sociologiche.
- PRODUZIONE. Nei luoghi di lavoro il disciplinamento appare come regolazione del conflitto, ottenuta mediante una limitazione del diritto di sciopero che ne vanifica l’efficacia come strumento di pressione. Precedentemente gli scioperi potevano durare mesi, mentre ora si arriva a parlare di sciopero virtuale, trasformando tale essenziale strumento di lotta, l’unico che sfida lo stato di diritto, in atto simbolico. Ciò porta alla ritualizzazione di tutte le altre forme di opposizione e in definitiva del conflitto stesso. Così come la trasformazione del sindacato in istituzione porta all’istituzionalizzazione delle altre organizzazioni del proletariato, anche quelle politiche. Questa involuzione determina la precarizzazione della forza lavoro e la figura dell’operaio e impiegato generico è trasformata in quella dell’operatore professionale.
- MERCATO E FINANZA. Il capitale monopolistico si presenta come il suo contrario, come capitale liberista. L’ideologia del libero mercato nasconde una realtà economica dove ogni settore produttivo è dominato da poche multinazionali oligopolistiche che costituiscono cartelli fissando arbitrariamente i prezzi. Così è anche nel mercato finanziario, dove pochi grandi gruppi ottengono enormi guadagni con operazioni speculative su monete, titoli, materie prime, immobili, acquisizioni. Essi operano su mercati deregolamentati, cioè mercati dove sono consentite manovre in passato considerate illecite, mentre il capitale finanziario conduce le sue manovre predatorie praticamente senza rischio. Infatti in caso di crisi gli stati sono sempre pronti ad intervenire per tamponare le falle con crediti illimitati e senza richiedere garanzie, in quanto è lo stato stesso, sempre pronto ad intervenire, la garanzia di ultima istanza di tutto il sistema finanziario. Tutto avviene secondo l’imperativo per cui l’impresa monopolista è “too big to fail”.
- POLITICA. Con la scomparsa del pensiero sociale si afferma nei fatti un partito unico che però appare come pluralismo, cioè si realizza nella forma della falsa alternanza di pochi partiti, al limite due o tre, che si avvicendano nella attuazione di un medesimo programma politico, quello della gestione di ciò che chiamano “ordine costituzionale”. Il pragmatismo appare come ideologia politica, mentre questa scompare nella “fine delle ideologie”.
- RAPPORTI SOCIALI. La cancellazione dei diritti del lavoratore, cioè del proletario come lavoratore, appare come trionfo dei diritti del cittadino in quanto utente o consumatore, diritti che si moltiplicano a dismisura: diritto alla “privacy”, alla mobilità, al consenso informato, all’informazione e mille altri. Attraverso la trasformazione dello stato sociale in stato assistenziale i diritti del lavoro in parte divengono diritti del cittadino, da tutelarsi mediante azione legale (cause collettive), portate avanti dalle associazioni dei consumatori, che sostituiscono i sindacati dei lavoratori come forma di tutela, mentre i diritti residuali sono trasformati in assistenza.
In questo inedito quadro sociale l’individuo in difficoltà viene visto come anomalia, da trattare con strumenti specifici: cure mediche, assistenti sociali, sussidi, strutture di recupero (TSO, Ser.T, comunità, tutele), dove la finalità è quella di salvaguardare non la persona ma la società da una potenziale pericolosità sociale. Più in generale da una parte si ha una ospedalizzazione del disagio sociale, dall’altra si giunge alla sua criminalizzazione, considerandolo un problema di ordine pubblico. Disoccupati, senzatetto, tossicodipendenti, immigrati, nomadi, posti come presunta minaccia sociale, sono usati come capro espiatorio al fine di accentuare la disgregazione del tessuto sociale, cioè l’isolamento degli individui. - REPRESSIONE. La criminalizzazione del disagio trapassa insensibilmente nella criminalizzazione dell’opposizione politica. La sua repressione ha luogo limitandone le forme “a tutela dell’ordine pubblico” e, quando queste vengono infrante, sanzionandola con l’applicazione di capi d’imputazione che comportano pene detentive e pecuniarie esorbitanti, giungendo sempre più spesso alla sua equiparazione al terrorismo. Il principio secondo il quale lo stato deve disporre del monopolio della violenza conosce una applicazione illimitata, per cui la violenza dello stato è sempre legittima, mentre quando appare nella forma di opposizione sociale diviene oggetto di esecrazione. Questo accade soprattutto in occasione di manifestazioni pubbliche dove la forza viene usata dallo stato indiscriminatamente, insieme a tecnologie antisommossa sofisticate, derivate da quelle belliche (gas nervini, ma ora si parla anche di raggi urticanti e altre tecnologie da fantascienza), ed anche ripresa a scopo intimidatorio dei partecipanti mediante cinecamere. Ma le forze di polizia sempre più sono giudicate insufficienti, facendo così ricorso da una parte all’esercito e dall’altra alle ronde di volontari. Inoltre si ha una estensione del controllo preventivo mediante disseminazione di telecamere in tutto il tessuto urbano. Ciò si ripete per i singoli individui: ampio uso di tecnologie informatiche per il controllo (microspie, intercettazioni telefoniche, registrazioni e banche dati), insieme a tecniche di interrogatorio “a bassa soglia”.
- RELIGIONE. Il ritorno sulla scena del potere delle gerarchie religiose appare come affermazione della libertà religiosa. Tale restaurazione del potere ecclesiastico costituisce un recupero da parte del capitale del rapporto di reciproco sostegno con l’autorità religiosa, cui corrisponde una intromissione delle gerarchie ecclesiastiche nella politica, come messaggio messianico nel caso dei teocon negli Stati Uniti, come abbandono del laicismo liberale da parte della politica in Europa.
- GUERRA. La guerra imperialista appare come intervento “umanitario” o “pacificatore”. Non è più guerra di singoli stati ma intervento di coalizioni con copertura di organismi internazionali (ONU, NATO). Quindi la guerra appare sempre più come una operazione di polizia internazionale. Contestualmente si riproduce a livello internazionale la stessa fenomenologia dello stato di polizia: criminalizzazione degli stati che resistono a tali interventi, uso di apparati di ascolto tipo Echelon, uso conclamato di torture “a bassa intensità” e di tecnologie belliche proibite, come le bombe al fosforo.
- RAPPORTI INTERNAZIONALI. Particolare rilievo hanno, nella questione del rapporto tra democrazia e totalitarismo nel capitalismo, le modalità secondo le quali vengono gestite le relazioni internazionali. Negli Stati Uniti il paradigma della democrazia autoritaria viene applicato anche nella politica estera, costituendo la forma peculiare dell’imperialismo americano, in questo imitato da tutti i subimperialismi attuali. Gli USA, salvo che nel particolare periodo di T. Roosvelt, in occasione della guerra del 1898 con la Spagna e l’occupazione delle isole Filippine, non ha mai usato le pratiche e il linguaggio del colonialismo classico, di matrice sostanzialmente europea, quello dell’esaltazione del compito storico di esportare la civiltà alle nazioni arretrate, del “fardello dell’uomo bianco”, cioè tutta la retorica della missione civilizzatrice, etc. Pur essendo lo stato più espansionista di tutta l’epoca borghese gli Stati Uniti hanno sempre evitato le forme dirette di dominio, ed hanno usato un linguaggio dal quale sono accuratamente espunti i termini più compromettenti, in primo luogo la parola “impero”, pur essendo ora pervenuti a costituire il primo impero planetario della storia. I termini in cui vengono presentate le guerre, le speculazioni finanziarie, il dominio politico, militare ed economico degli Stati Uniti sono costantemente quelli di una missione a difesa della libertà e della democrazia contro tutti i totalitarismi. Ciò sia nel corso delle due guerre mondiali che nella guerra fredda, ma anche nella liquidazione, posteriore alla seconda, del colonialismo europeo, per prenderne il posto. Ciò ha permesso agli Stati Uniti, di instaurare un impero mondiale fondato sul dominio militare (più di ottocento basi e installazioni militari di vario tipo dislocate in tutto il mondo) ed economico (imposizione del dollaro come unica moneta di scambio e di riserva internazionali).
In questi rapporti internazionali l’imperialismo unico esistente (perché l’unico di dimensioni planetarie) lascia uno spazio scrupolosamente delimitato ad altri subimperialismi da esso strettamente dipendenti. In tal modo l’imperialismo USA può presentarsi come “comunità internazionale”, garante dei diritti degli stati, che sotto la direzione USA si è arrogata il diritto di intervenire in qualsiasi stato che non accetti i principi formali della democrazia e del libero mercato, anche se questo significa cadere sotto il dominio delle multinazionali e del capitalismo mondiale.

2. L’ORIGINE
Che il modello della democrazia autoritaria venga applicato universalmente nella politica internazionale è un fatto particolarmente rivelatore. Infatti questo modo di gestione dei rapporti internazionali nasce negli Stati Uniti ed è successivamente imitato dalle altre grandi potenze. Ma lo stesso si può dire per l’applicazione di tale paradigma ai rapporti fra le classi. Questo modo di governare le transizioni del capitalismo, questa commistione contraddittoria di democrazia ed autoritarismo, praticate in Europa separatamente ed alternativamente, e negli Stati Uniti sempre unitariamente, cioè come democrazia autoritaria, nasce e si sviluppa precocemente negli Stati Uniti, dove conosce la sua maggiore sofisticazione e il suo trionfo, in una forma che progressivamente viene fatta propria dagli altri paesi capitalisti. Su tale questione occorre notare come lo stuolo di corrispondenti dell’informazione di massa attivi negli USA producano per lo più solo un coro di lodi per il sistema politico americano, salvo poi parlare di tutto tranne che del sistema stesso, che è profondamente differente dalle analoghe istituzioni europee e il cui funzionamento pratico (il diavolo si nasconde, come sempre, nei particolari) getta molte ombre sulla sua effettiva democraticità. Quindi reperire dati su tale realtà presenta notevoli difficoltà, essendo questi disponibili solo in ambiti specialistici, naturalmente qui in forma edulcorata e apparentemente “neutrale”. Tuttavia, in buona sostanza, si può affermare che il sistema politico attuale, che si può qualificare, nonostante la contraddizione in termini, come democrazia autoritaria, ha la sua origine e il suo modello nel corrispondente sistema politico americano.

Il Nuovo Mondo si presenta come un mondo contraddittorio. Da una parte appare realmente nuovo, in quanto mostra caratteristiche peculiari che lo rendono effettivamente differente dal Vecchio Mondo, cioè dalla Vecchia Europa. Basti pensare all’individualismo sul piano economico, al federalismo sul piano politico, al pragmatismo filosofico, al pluralismo religioso, etc. il tutto condensato in una formula fortemente identitaria: l’ “american way of life”. Dall’altro lato, essendo il Nuovo Mondo uno sviluppo particolare di quello europeo, esso non può dirsi essenzialmente diverso, anche se nasce da una guerra di indipendenza che prende il nome di Rivoluzione Americana. Anzi, agli occhi degli europei l’America appare essenzialmente come una estensione dell’Europa stessa e viene giudicata con lo stesso metro.
Questo modo di giudizio vale in particolare per gli Stati Uniti, che significativamente si riferiscono a sé stessi come all’ “America”, ponendo la parte come il tutto. Però essa, avendo sorpassato l’Europa come sviluppo economico, sfugge a tali categorie “europee”, per cui sovente viene vista come il futuro obbligato di un Vecchio Mondo attardato sul cammino della storia dal peso di un passato che è costretto a trascinarsi dietro. Questo giudizio sull’ “America” è in parte certamente vero, ma contraddice la presenza in essa di manifesti arcaismi, soprattutto in quella che è la vera “America”, lo sterminato Middle West, infinitamente lontano dalle due coste, superficialmente moderne e dinamiche, che rappresentano l’ “America” così come si mostra agli occhi del mondo, ma che non è quella reale, né la rappresenta. Sui caratteri peculiari della vera “America”, che la rendono differente dall’Europa basti richiamare l’attenzione su alcuni dati: i caratteri di guerra sociale nei rapporti fra le classi (per quel che si sa, uso fino a tempi relativamente recenti di squadre armate, i “Pinkerton” ed elementi della malavita, e pratiche di spionaggio e provocazione nei sindacati, da parte dei padroni per disperdere picchetti e reprimere gli scioperi); il basso grado di sindacalizzazione (13,5% della forza lavoro nel 2000); il tasso di detenuti nelle carceri, dieci volte più elevato che in Europa; non ultimi gli arcaismi politici, che producono da una parte un alto astensionismo nelle elezioni, dall’altra una delega virtualmente illimitata al corpo politico (il diritto di voto è subordinato alla richiesta di registrazione, il presidente ha poteri quasi monarchici); inoltre gli arcaismi religiosi (il pluralismo religioso e il fanatismo che trasuda dai discorsi pronunciati in molte di tali chiese, che ricorda le guerre di religione in cui molte di tali confessioni sono nate); un razzismo sanguinario (eliminazione cruenta dei “Black Panthers”).
Sul piano politico questa contrasto tra arcaismo e modernità si esprime come opposizione tra un manifesto autoritarismo e il culto della sua base materiale, cioè della forza, da una parte, e una superficiale democrazia, e lo sviluppo del suo fondamento, cioè dell’economia, dall’altra. Quindi l’enigma americano è sotteso a questa apparenza dualistica del sistema politico: da un lato un arcaico autoritarismo, dall’altro una moderna democrazia. Tale opposizione si riscontra anche nell’America Latina, sebbene in termini diversi. Qui chiaramente ha prevalso l’elemento arcaico, essendo quello che ha costantemente predominato nel corso della sua storia coloniale, nella forma di una lunga sopravvivenza della società feudale. Sorte questa non disgiunta dalla storia del Nordamerica, nel corso della quale gli Stati Uniti, per primi giunti all’indipendenza, hanno sempre frenato lo sviluppo dell’America Latina. Vale per essa quello che i messicani dicono del loro paese “troppo vicino agli ‘yanquis’, troppo lontano da Dio“, che in seguito alla guerra del Texas del 1846-48 contro il potente vicino ne uscì con il territorio dimezzato.
L’arcaismo che caratterizza tutta l’America, quella latina come quella anglosassone, si può far risalire, da una parte, al rapporto con un ambiente geografico e culturale arcaico, quando non ancestrale, all’epoca della colonizzazione, il cui carattere emblematico è l’economia della piantagione e lo schiavismo. Dall’altra ha influito il carattere tipicamente conservatore che si osserva in generale in ogni ambiente di immigrazione, (specialmente se coloniale), che tende ha conservare immutati cultura, costumi e linguaggio originari, mentre la metropoli si evolve. Ma è altrettanto indiscutibile che al contempo, per taluni aspetti, tali società evolvano assai rapidamente, ciò che è in quanto sono caratterizzate dalla debolezza o dall’assenza di quelle obsolete strutture sociali che fanno da freno ad ogni sviluppo politico e culturale, non esportabili dalla metropoli, strutture la cui distruzione è la condizione di ogni ulteriore sviluppo. Infatti negli Stati Uniti, contraddittoriamente, i principi del liberalismo classico hanno potuto svilupparsi in forma pressoché pura e in misura superiore alla stessa Gran Bretagna, ciò che non ha potuto verificarsi in America Latina, dove sopravvivevano potenti forme sociali feudali. Ma al contempo troviamo, ad esempio, un sindacalismo fortemente corporativo, organizzato per aziende e per mestieri. Qui l’emblema di questo carattere progressivo del Nuovo Mondo è la “frontiera”, che finirà per sconfiggere l’arretratezza e il conservatorismo dell’economia della piantagione.
La conseguenza più sorprendente di tale evoluzione sta nel carattere autoritario della democrazia negli Stati Uniti, che ne fa il brodo di coltura ideale per il fascismo moderno. Infatti ciò che distingue il fascismo sono due elementi: l’essere uno strumento politico che il capitalismo è sempre pronto a mettere in opera se necessario quando si presenta una crisi; di essere inoltre un aggregato solo apparentemente contraddittorio di contenuti progressisti e reazionari (lo stato sociale esiste insieme ad un regime di dittatura personale). Ma questi sono esattamente i caratteri delle colonie di popolamento, in particolare dell’America: instabilità sociale con forti contrasti etnici ed economici, che determinano estreme disuguaglianze (schiavismo e razzismo) e rivolte a sfondo economico ma anche etnico; ed insieme, una società costituita da un magma di elementi contraddittori, cioè una commistione di elementi arcaici e spinte ad un progresso accelerato.
Per questo gli Stati Uniti si trovano all’avanguardia anche sul terreno delle forme politiche del capitalismo, soprattutto per quelle relative ai tempi di crisi. Infatti gli Stati Uniti hanno potuto sperimentare a lungo nel corso della loro storia questa specifica forma politica, sviluppandola nella sua versione più efficace, quella della democrazia autoritaria. Essa è stata preceduta da forme meno evolute, che corrispondono al fascismo europeo, rappresentate dalla democrazia diretta popolare della Frontiera, che è la forma non statuale che assume qui il liberismo, avente come base sociale una classe di piccoli proprietari agricoli ed artigiani, società in realtà fortemente conflittuale e classista dove valeva la legge del più forte. Ad essa segue la democrazia del capitale monopolistico sviluppatosi dopo la guerra civile, che giunge a maturazione con il New Deal, la forma originaria della democrazia autoritaria americana, cui fa da contraltare in Europa il nazismo, quale forma più compiuta del fascismo. Infatti è proprio a quell’epoca che viene cancellato l’IWW, cioè il sindacalismo rivoluzionario, con veri e propri massacri dei suoi esponenti. Ciò mostra l’anello di congiunzione tra democrazia autoritaria e fascismo, la cooptazione della classe media nel capitale, momento che in Europa è eccezionale e transitorio mentre negli USA questa mobilitazione della classe media contro il proletariato è permanente ed è occultata da una identificazione ideologica tra la due classi in una “middle class” onnicomprensiva. Ma la democrazia autoritaria è più evoluta del fascismo, e anticipa quella che è attualmente la forma politica più adatta al neoliberismo e alla terza rivoluzione industriale. Tale evoluzione più rapida ed anticipatrice è favorita negli USA dallo sviluppo economico più avanzato, che ha trasformato il lavoro salariato in una estesa classe media, che assomma i caratteri della classe media tradizionale e del proletariato evoluto, costituendo quindi il proletariato moderno. Pertanto già nel corso della seconda rivoluzione industriale gli Stati Uniti anticipano quella che sarà la forma politica della terza, la democrazia autoritaria. Per questo, poiché ai giorni nostri diviene necessario un fascismo più moderno, la democrazia autoritaria americana diviene il modello seguito universalmente, in Europa come nei paesi in via di sviluppo, in un mondo unificato dallo sviluppo di un mercato mondiale. Dal punto di vista culturale il modello è quello che insieme a quello politico l’ “America” ha sviluppato nel corso di tutta la sua storia: l’ “american way of life”, un equilibrio tanto perfetto quanto mistificatorio di individualismo e socialità, pur nella loro contraddittorietà. Ma in questa forma la democrazia autoritaria americana assume la forma di ideologia dell’imperialismo americano che si identifica con l’ideologia del capitale neoliberista mondiale.
In Italia, in particolare, il successo della destra sta nell’aver assimilato perfettamente il modello americano di democrazia autoritaria e nell’averlo applicato coerentemente.

II. LA SOVRASTRUTTURA IDEOLOGICA: L’IDEOLOGIA AMERICANA

Nello sviluppo di quella forma politica originale costituita dalla democrazia autoritaria è fondamentale il ruolo svolto dall’ideologia. Già la contraddizione in termini dell’espressione che la designa indica quale è il carattere distintivo di tale forma, cioè la mistificazione portata all’estremo. Ciò implica la costruzione di una ideologia molto raffinata e dotata di un potere di persuasione elevato. Naturalmente tali caratteri non gli sono intrinseci ma derivano dal successo della base materiale che l’ha generata. Infatti almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in cui la sconfitta della Germania ha segnato la fine del predominio europeo nel mondo, gli Stati Uniti costituiscono per l’Europa non solo la nazione egemone, ma il modello in ogni campo, non solo culturale, come appare evidente, ma soprattutto in quello economico e politico, in quanto forma adeguata alla terza rivoluzione industriale.

1. L’IDEOLOGIA AMERICANA

Il punto di partenza di tale ascesa è stata la seconda rivoluzione industriale che ha avuto negli Stati Uniti e nella Germania i maggiori centri propulsori, gli uni nell’organizzazione industriale, con l’introduzione del taylorismo-fordismo, l’altra nell’applicazione della scienza alla tecnica per lo sviluppo di nuovi prodotti e processi di produzione. L’industria moderna, fondata sull’organizzazione scientifica del lavoro e sull’innovazione scientifica, si sviluppa su grande scala soprattutto negli Stati Uniti, così come il suo strutturarsi in oligopoli transnazionali di grandi dimensioni, e qui ha origine la contrattazione collettiva e il sindacato manageriale moderno, cogestore dei posti di lavoro e quindi anche della politica industriale, sia aziendale che nazionale. Alla centralizzazione del potere economico corrisponde quella del potere politico, per cui negli Stati Uniti esso si caratterizza per la sua concentrazione nell’esecutivo e l’articolazione del potere legislativo in forma bipartitica, facilmente controllabile dall’esecutivo, benché riluttante alla disciplina di partito, e influenzabile dai gruppi di pressione. Il vero contrappeso diviene così il potere giudiziario, che si scontra costantemente con il potere politico senza però metterlo mai veramente in discussione. La sua funzione è quella di tutelare i diritti formali del cittadino, che vengono enormemente ampliati a discapito dei diritti del lavoratore. Viene così accentuata la posizione dualistica dell’individuo come cittadino e come soggetto economico, il primo tutelato, il secondo lasciato in balia delle forze impersonali del mercato, in omaggio al liberismo.
Anche in Germania si ha uno sviluppo parallelo, poiché i “konzern” tedeschi non sono da meno dei “trust” americani, ma caratterizzato da una maggiore integrazione dell’economia nello stato, per cui anche quella del proletariato nel capitale avviene più attraverso la politica che per mezzo del sindacato, ed ha luogo nella forma del riformismo della socialdemocrazia tedesca. Anche qui abbiamo una concentrazione di potere nell’esecutivo, che non ha peraltro contrappesi. Ma non è qui possibile sviluppare una comparazione tra i due sistemi economici e politici, d’altra parte il modello tedesco non ha interesse essendo stato sconfitto.

Si è già visto come questo quadro economico istituzionale porti nella realtà pratica a configurare gli Stati Uniti come una democrazia autoritaria. Ciò che sorprende è la percezione che l’opinione pubblica ha di esso, sia all’interno degli Stati Uniti che a livello internazionale. Salvo rare eccezioni, il giudizio che si dà del sistema è esattamente quello di una percezione capovolta della realtà. Gli Stati Uniti appaiono come il “paese più libero del mondo” e a livello internazionale come strenuo difensore della democrazia, quindi della libertà.
Come ciò possa verificarsi a fronte di fatti incontrovertibili, cioè economici, quali il tributo che l’economia mondiale versa agli Stati Uniti attraverso il ruolo dominante del dollaro, e l’alto tasso di sfruttamento della manodopera, inversamente proporzionale al basso tasso di sindacalizzazione, resta a prima vista inspiegabile. Ciò conduce necessariamente ad esaminare il ruolo che oggi e nel passato, negli Stati Uniti e nel mondo capitalistico, svolge l’ideologia nel mantenimento degli assetti sociali.

Se la funzione dell’ideologia è quella di costituire una visione del mondo e soprattutto della società in cui ognuno possa riconoscersi, nella quale quindi scompaiano le classi ed i loro conflitti, occorre ammettere che l’ideologia americana, cioè “l’american way of life”, base dell’ “american dream”, assolve meravigliosamente bene a tale compito, sia per i contenuti che per l’importanza che gli viene riconosciuta e per lo sviluppo che gli viene dato.
Riguardo ai contenuti è una ideologia pragmatica, quindi una guida all’azione sociale, cioè una morale, come lo sono del resto tutte le ideologie in quanto pensiero sociale. Proprio per questo, essendo gli Stati Uniti una società fortemente identitaria, quindi moralista, viene data estrema importanza in ogni circostanza all’adesione all’ideologia da parte di ognuno, per cui viene guardato con sospetto chiunque non l’accetti senza riserve.
Tale ideologia ha uno sviluppo in cui è riflessa la storia del sistema sociale che l’ha generata. L’ “american dream” inizia come ideologia del pioniere, come mito della “frontiera”, di un mondo da conquistare nel quale non solo vi sono opportunità per tutti, ma dove ciascuno può esprimere le sue qualità migliori e mostrare quanto vale, valore che è commisurato esattamente alla quantità di denaro che riesce ad accumulare. La frontiera è una palestra della competizione fra gli individui e il premio per i vincenti è il successo economico e quindi sociale, mentre chi fallisce subisce una generale stigmatizzazione, ma si ammette che vi è sempre un’altra occasione se ci si rimbocca le maniche. Tutto ciò in origine corrisponde ad una realtà effettiva, ma la “frontiera aperta” scompare con le ultime assegnazioni di terre demaniali e l’abrogazione del “Homestead Act” nel 1891. Dopo di che l’ “ameriacan dream” trapassa in una ideologia degli affari, diviene l’ideologia della concorrenza che presiede al tumultuoso sviluppo economico che ha luogo dopo la guerra civile, quello del capitale moderno, cioè del capitale monopolistico dopo la seconda rivoluzione industriale. Il mercato prende il posto della natura primordiale, il talento negli affari quello della capacità di lavoro nella colonizzazione, i concorrenti quello dei nativi cui contendere la terra, da eliminare pacificamente se possibile, con ogni mezzo se necessario.
Conseguenza di tale ideologia è che non esistono classi sociali, ma solo individui di successo o perdenti, per cui coloro che sono in fondo alla scala sociale sono solo quelli che nella corsa alla ricchezza sono andati incontro all’insuccesso, e ciò per colpa loro. Per cui gli operai non solo si sentono degli sconfitti, ma soprattutto non si sentono come coloro che saranno operai per sempre, ma attendono la buona occasione per uscire da tale condizione. Cioè, l’ “american dream” è il mito della scalata sociale aperta a tutti, della permeabilità delle classi sociali, della posizione sociale come realizzazione individuale, non come destino collettivo. E’ l’ideologia del liberismo portata alle estreme conseguenze. L’affermazione rapidissima del capitale monopolistico e la crisi del iberismo naturalmente non scalfiscono la potenza di tale ideologia.
Con la prima guerra mondiale gli Stati Uniti entrano nella competizione imperialistica, individuando subito nella Germania, nuova potenza economica e politica emergente, l’avversario principale. Esso non può essere una delle potenze in declino nate con la prima rivoluzione industriale, cioè Gran Bretagna e Francia, dove la prima aveva prevalso sulla seconda creando il primo impero mondiale borghese, e in seguito nemmeno lo stato socialista dell’URSS, appena emerso dall’arretratezza economica. La seconda rivoluzione industriale rimette in discussione i rapporti tra le grandi potenze, con l’ingresso nel loro concerto di nuovi stati, quali la Germania, gli Stati Uniti, il Giappone e l’URSS, che intendono divenire protagonisti, e l’uscita di altri, quali la Turchia e l’Austria, mentre altri ancora, come la Russia e la Cina, si rinnovano. Si tratta delle guerre di supremazia, cioè delle due guerre mondiali e della guerra fredda, che si possono considerare fasi distinte di un unico grande conflitto planetario. Questo immane scontro, durato dal 1914 al 1989, i settantacinque anni del “secolo breve”, gli Stati Uniti sconfiggeranno separatamente i due avversari, prima la Germania, poi l’URSS.
Tale conflitto costituisce un paradigma del movimento storico della borghesia, sostanzialmente non ideologico quanto si tratta di affari. Da una parte la sua ineliminabile frazionamento interno, dovuto alla concorrenza, ben rappresentata dalla lotta all’ultimo sangue tra Stati Uniti e Germania. Quanto poco questa costituisca una lotta tra democrazia e fascismo è mostrato dal gioco delle alleanze, dato che il fascismo non è che la parte provvisoriamente nascosta della democrazia borghese. Infatti gli Stati Uniti non esitano a stringere un patto con il diavolo, l’URSS, pur di eliminare il concorrente più temibile. Ma pronti ad allearsi con gli ex-nemici per battere successivamente l’avversario meno pericoloso, con un calcolo che a posteriori si è rivelato esatto. Tale duplice vittoria ha come sbocco la costituzione dell’impero planetario americano.
Caratteristico di tale evento non è solo il ruolo fondamentale svolto dalla potenza economica, ma in misura almeno uguale la potenza ideologica e mediatica. Radio, televisione, fotografia e cinema nascono insieme in questo periodo e rivoluzionano la produzione di cultura, quindi di ideologia, assai più di quanto abbia fatto la stampa all’inizio dell’età moderna. Peraltro a tali strumenti si affiancano a una stampa modernizzata, cioè quotidiani e riviste illustrate a grande tiratura, per creare un gigantesco e pervasivo apparato mediatico, di potenza manipolatoria senza precedenti in tutta la storia.
Quanto ai contenuti, sono di due tipi. Il primo è connesso con l’organizzazione del consumo, cioè alla circolazione delle merci, come uno dei momenti fondamentali del ciclo del capitale. Il secondo concerne la sfera dei rapporti internazionali, come momento dell’organizzazione del mercato mondiale. In quest’ultimo lo schieramento capitalistico e gli Stati Uniti in particolare vengono presentati in forma apodittica come il regno della libertà, sul modello della ideologia americana nazionale. Il mercato mondiale è l’arena in cui ogni paese deve misurarsi in una leale competizione, e la produttività del lavoro, quindi le risolse tecnologiche e l’innovazione, sono le capacità da far valere sul mercato, mentre gli avversari ostili da abbattere sono “le dittature” e più recentemente “gli stati canaglia“ o terroristi, e gli stati democratici sono ammessi ad una comunità internazionale volta a realizzare il migliore dei mondi possibili. Ovviamente la subordinazione militare e politica agli Stati Uniti diviene conseguenza di quella economica ma l’ideologia la occulta, mentre chi non si presta al gioco viene immediatamente espulso dalla “comunità internazionale”, sottoposto a boicottaggio economico e se non basta a “guerra preventiva”. In precedenza, nel periodo coloniale, era la dipendenza economia che seguiva la subordinazione politica e militare. Ora accade il contrario e si instaura fra gli Stati Uniti ed il resto del mondo un rapporto neocoloniale, che ha come simbolo e strumento principale di dominio il dollaro quale unico mezzo di pagamento e moneta di riserva internazionali, cui tutte le altre monete sono in ultima istanza subordinate.

2. LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA AUTORITARIA

Per quanto concerne il loro carattere, la democrazia autoritaria e il neoliberismo come ideologia corrispondente, al di là di quelle che sono le loro origini storiche e la successiva evoluzione, presentano evidenti analogie con il fascismo storico, pur essendone profondamente diversi. La democrazia autoritaria può essere definita come fascismo moderno. Il legame più stretto tra i due sta nel fatto che, come quello storico, il fascismo moderno è sintomo di una transizione storica del capitale, il passaggio dalla rivoluzione taylorista a quella informatica. Essendo il fascismo, inteso come totalitarismo, il modo della borghesia di governare le crisi di transizione, da ciò le chiare analogie storiche. Infatti, come l’involuzione della rivoluzione russa determinò la vittoria del fascismo in tutto il mondo, così la sconfitta del movimento rivoluzionario degli anni 70 ha prodotto la nascita del neoliberismo e la sua affermazione. Per cui può sembrare che il fascismo moderno abbia realizzato il programma del fascismo storico. Ma si tratta di due forme di fascismo essenzialmente diverse, in quanto l’esigenza di quello moderno è di apparire come la realizzazione completa della democrazia. Cioè la sua specificità sta nella profonda compenetrazione tra questi due aspetti contraddittori, ciò che costituisce la sua debolezza, nonostante il suo apparente successo.
Ma non bisogna nemmeno identificare la democrazia autoritaria con il populismo, che si caratterizza per il legame che si stabilisce tra il popolo e un autocrate, dove il popolo è il proletariato in un momento di completa identificazione con la classe dominante, ciò che è sempre possibile in quanto normalmente “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (Marx). Quindi può crearsi questa unione mistica dei dominati che si identificano con il dominio. In effetti sia il fascismo storico che il nazismo salirono al potere utilizzando le istituzioni dello stato liberale, cioè per via elettorale. Ma poi le abolirono e comunque il fascismo storico ha la forma di una dittatura personale. Invece la democrazia autoritaria conserva come un involucro mimetico tali istituzioni, e non genera personalità carismatiche. Bensì produce costantemente dei surrogati, personalità nuove ma false, che consuma e sostituisce rapidamente. Non può fare altrimenti perché deve conservare le apparenze e i riti della democrazia rappresentativa.
Pertanto il fascismo contemporaneo non rappresenta un ritorno al passato, ma costituisce una forma politica del capitalismo a sé stante, storicamente determinata dalla attuale fase incipiente della terza rivoluzione industriale. Ma come tutte queste forme di transizione non può rappresentare una forma politica duratura, essendo incompatibile con il processo economico del capitale. Ma il declino storico del capitale, minato da una socializzazione crescente della produzione (mercato mondiale e divisione del lavoro) che si scontra con la privatizzazione del prodotto, rende sempre più difficile abbandonare tali forme sovrastrutturali, che divengono un ostacolo che paralizza il misura crescente lo sviluppo del capitale. Quindi per il proletariato tale fase porta ad un arretramento, ma si tratta ovviamente di un arretramento momentaneo. Ogni vittoria del capitale prepara sempre la sua prossima crisi e avvicina quella finale.

Infatti nello sviluppo della rivoluzione informatica che caratterizza la nostra epoca il capitale sta incontrando grandi difficoltà, che sono evidenziate dalla crisi generale che sta attraversando l’economia capitalista e quindi anche l’ideologia corrispondente, il neoliberismo.
Le idee non hanno storia in quanto sono solo il riflesso della storia reale, quella materiale, l’unico campo in cui gli uomini possono agire per cambiare il mondo e se stessi. Ma le idee ne sono state finora, cioè nella storia incosciente, il riflesso mistificato, in quanto espressione degli interessi delle classi dominanti, che sono rappresentarti come interesse generale. Quindi la condizione necessaria per il tramonto di una ideologia è la disgregazione della base materiale che la genera, estinzione che segue sempre in ritardo il processo materiale di dissoluzione. Ciò accade quando il pensiero dominante non riesce più a dare una forma accettabile alla rappresentazione dello stato di cose esistente, cioè ai rapporti sociali correnti, questo perché è costretto ad entrare in contraddizione con se stesso, cioè con i valori sociali che sostiene. Ma ciò può verificarsi solo quando i rapporti sociali di produzione non sono più adeguati a dare forma socialmente riconosciuta e accettata alle forze produttive.
Ma nemmeno la nuova coscienza che segue a quella ideologica precedente si manifesta come coscienza veritiera, cioè come teoria che si contrappone all’ideologia, in quanto il passaggio da una società di classe ad un’altra non è a livello del pensiero che la sostituzione di una mistificazione con un’altra, come è avvenuto nel movimento che ha portato dal feudalesimo al capitalismo. Una vera coscienza, l’autocoscienza, può emergere solo da una crisi che porti al superamento della società di classe, cioè quando lo sviluppo delle forze produttive giunge ad un livello incompatibile con qualsiasi società di classe. Allora non è più possibile nessun discorso ideologico, e si apre la condizione materiale per la nascita di una coscienza teorica, di una coscienza non più solo apologetica e a posteriori, ma rappresentazione immediata e adeguata della realtà, e ad un tempo conseguenza necessaria, ma anche condizione, per la nascita di una società senza classi. E’ ciò cui stiamo assistendo in questa fase storica.

Sebbene sia solo storia riflessa l’ideologia ha una storia che non è priva di interesse in quanto è una spia di quanto accade nella base materiale che la produce. Come la religione cristiana ha espresso fedelmente lo sviluppo della società feudale ed il suo passaggio alla società borghese, così l’ideologia americana, in quanto risultato della sua base materiale si è sviluppata da ideologia di un capitalismo particolare ad ideologia generale del capitalismo moderno, pervenendo allo statuto di pensiero dominante. Ma essendo sopravvenuta una grave crisi della base economica sottostante, tale pensiero entrerà in crisi a sua volta, in ritardo, in quanto ancora una volta dovrà seguire tale mutamento traumatico. Già in passato ha dovuto trasformarsi da ideologia particolare di un processo di colonizzazione a pensiero generale del moderno capitale monopolistico, poi in falsa coscienza imperiale, sempre mantenendo in tale evoluzione gli elementi fondamentali che lo caratterizzano. E’ ciò che fece il cristianesimo, ma con l’ascesa del capitalismo e la Riforma fu costretto ad entrare in contraddizione con se stesso, giustificando l’adorazione del vitello d’oro, segnando così la sua fine come pensiero unitario ed universale, che corrispondeva al tramonto del modo di produzione di cui era la rappresentazione ideologizzata.
Così l’ideologia americana contraddice se stessa, ponendosi essenzialmente come pensiero liberista, ma giustificando ora senza riserve l’intervento dello stato nell’economia. Inoltre si proclama liberale e pacifista mentre interviene pesantemente, con sanzioni economiche e interventi militari, in ogni parte del mondo, senza più rispettare le tradizionali aree di influenza delle altre potenze. Infatti il presidente Obama è costretto ad affermare che “la democrazia non si esporta”, smentendo uno dei pilastri fondamentali dell’ideologia imperiale americana, e nei consessi internazionali si comincia a proporre la sostituzione del dollaro con i “diritti speciali di prelievo” del Fondo Monetario Internazionale, come base monetaria dell’attuale economia mondiale unificata.
Tali contraddizioni sorgono da una trasformazione radicale della base produttiva mondiale che rende necessaria una economia mondiale unificata e gestita centralmente, quindi un governo mondiale. Ma un simile livello di socializzazione delle forze produttive non è compatibile con una dimensione privatistica e con interessi settoriali. Tale necessità di trovare le forme sociali di tale livello di sviluppo dell’economia, produrrà la teoria necessaria insieme alla corrispondente coscienza sociale. Così si realizzerà un fondamentale principio espresso da Marx, sempre attuale in quanto essenziale per il passaggio al comunismo: “La teoria diviene un’arma quando di essa si impadroniscono le masse”

ottobre 09 Valerio Bertello